La tentazione di scrivere qualcosa per la scomparsa di Ozzy Osbourne è stata forte, inutile negarlo, e se mi ritrovo a buttar giù queste quattro sciocchezze vuol dire che non sono riuscito a vincerla. Dopotutto, nel momento in cui una personalità di quel calibro ci lascia sei risucchiato da un rito collettivo a partecipazione obbligatoria, anche se magari non eri pronto o non avevi voglia. I social in questo diventano quasi ipnotici. Eppure non è stato difficile, è bastato lasciare che l’istinto e il buon senso facessero il loro corso. Molti articoli, saggi, ricordi sono stati scritti, alcuni peraltro molto belli, cos’altro avremmo potuto aggiungere a ciò che è stato già detto senza cadere nel banale? Mi ero promesso di farlo solo dopo un po’ di tempo perché di cose da dire su Ozzy e sulla sua eredità in realtà ce ne sono eccome.
Non è stato difficile restarmene in silenzio un po’ perché avevo altro a cui pensare nel mio quotidiano, un po’ perché, a dirla tutta, per me artisticamente Ozzy non era già più interessante da parecchi anni. Questo non fa di me un Roger Waters qualsiasi, anzi, per inciso credo che la recente esternazione dell’ex Pink Floyd fosse meno maliziosa di come è stata raccontata.
Il suo rapporto con Ozzy è decisamente più distaccato del mio e buona parte di quello che ha fatto musicalmente, soprattutto con i Black Sabbath, ha avuto un impatto enorme sul mio vissuto e sui miei gusti musicali, ma dubito che Waters sappia chi sia stato Randy Rhoads o abbia mai ascoltato più di due minuti dei riff di Tony Iommi; a lui sono giunte solo le notizie eclatanti nel corso degli anni, quelle che vieni a sapere sfogliando il giornale la mattina (pipistrelli, pisciate in vestaglia femminile sui monumenti nazionali, sniffate di formiche, feci sul soffitto di un albergo, ripetute disintossicazioni e reality show con tutta la famiglia), quindi immaginiamoci che razza di considerazione possa mai aver avuto Mr. Floyd del personaggio.
La mia luna di miele con Ozzy si interrompe proprio nel ’95 con l’uscita di Ozzmosis, un disco di transizione ma che include comunque almeno due-tre pezzoni enormi. In realtà gli unici suoi lavori che ancora oggi da adulto mi trasmettono qualcosa sono quelli con Randy Rhoads, mentre il periodo successivo, quello cosiddetto “americano”, era sì pieno zeppo di belle canzoni e grandi session man, ma non riesco più a godermelo come quando ero ragazzino, vai a capire perché. Saranno invecchiati male gli album o forse io. Gusti personali.
Questo per dire che arrivo al 2025 già con un grosso distacco emotivo verso Ozzy. Contestualmente a quel brusco stop di metà anni ’90 è partito invece il trip con i Sabbath degli anni ’70 e tutto quel mondo che si rifaceva ai loro dischi, per cui nel tempo ho seguito con scarso interesse le sue nuove uscite, finendo quasi per snobbarle.
Credo che lo spartiacque, quando si parla di Ozzy, sia stato il passaggio consumatosi proprio nel periodo di “Ozzmosis” o subito dopo, in cui ha accantonato l’idea di diventare un’icona da museo delle cere proiettando invece il proprio mito nel presente.
Quella fase coincise con il reality “The Osbournes”, una svolta mediatica che percepii come simpatica e nulla più, senza neppure darci chissà quale peso. Erano anni in cui avevo un piede dentro al metal e uno fuori, non stavo dietro le novità, per cui la considerai come la mossa di una vecchia gloria per adeguarsi ai tempi; un’operazione di grande furbizia se vogliamo.
Sono, non dimentichiamolo, anche gli anni degli Ozzfest, in cui la figura di Ozzy si consegna alle nuove generazioni e a quella grande ammucchiata di alternative band, tra i Korn, Coal Chamber, Metalcore e Nu Metal, e da cui poi venne fuori anche il carrozzone visto ora a Birmingham, dove tanti gruppi sono di quella mandata lì.
Per quel vago senso di giustizia terrena che mi pervade, mi sarebbe piaciuto vedere al BTTB un Leif Edling con i Candlemass, oppure Lee Dorian, o magari gli Avatarium, o persino i Kadavar, gente che avrebbe saputo riproporre benissimo delle cover dei Sabbath, e invece oltre a tante vecchie glorie e qualche imbucato, c’erano soprattutto rappresentanti di quel mondo ex-trendy, ovvero coloro che iniziarono a celebrare il mito dei Sabbath più o meno dai tempi della compilation tributo Nativity in Black.
Lo stesso direttore artistico dell’evento, il rivoluzionario made in Harvard Mr. Tom Morello, ha un pedigree artistico ben chiaro che ci riporta dritti a quel contesto storico, non stupisce che il taglio dato a “Back To The Beginning” fosse a trazione fortemente moderna e mainstream.
Fra i ’90 e i 2000 Ozzy fece un grande salto di mercato, forse quello decisivo che lo porta fino ad oggi; The Osbournes e gli Ozzfest sono state operazioni di business concepite con tutti i crismi del caso, mantenendo sicuramente un grande profilo professionale come per tutta la produzione che porta la sua firma.
Se vogliamo andare sul concreto ci sono aspetti innegabili che si legano a lui oltre ai dischi.
Da un lato, specie nell’ultima fase, Ozzy è stato la cavia dei più biechi e marci esperimenti di music business. Ha avuto a che fare prima con Don Arden, già manager dei Sabbath e personaggio dalla reputazione tutt’altro che cristallina. Poi ha “subito” le angherie di marketing di sua moglie Sharon, figlia dello stesso Arden, allenata alla durissima palestra del padre.
Non c’è da stupirsi se il risultato sia stato quello che abbiamo visto negli anni.
Non staremo qui a ripercorrere tutto quanto, soprattutto il trattamento riservato ai vari musicisti che lo hanno accompagnato durante la sua carriera, Il mondo del music business è pieno di storie torbide e spietate, ma quelle che hanno gravitato attorno agli Osbourne vanno quasi tutte dritte in cima a un ipotetico podio.
Se volete riscoprirne qualcuna delle meno note, cliccate qui.
Sono di solito le storie delle band sfigate a colpire e coinvolgere, i Celtic Frost, i Savatage, gli Armored Saint o gli Skyclad, quelli che dal music business hanno preso calci in faccia e sono stati raggirati, depredati quando ancora umiliati.
Ozzy ha vissuto tutto questo dalla parte di Golia, non è mai stato un oppresso del rock n’roll, anzi, è sempre stato dalla parte giusta e la cosiddetta “macchina” gli ha sempre ricucito addosso un ruolo ad hoc quando era il momento di stare sulla scena.
Dall’altro lato, è innegabile che ci troviamo di fronte, comunque la si voglia vedere, a un grande personaggio e un grande progetto.
Già, un progetto.
Ozzy non componeva le musiche e neppure i testi, nonostante nelle interviste si calasse talmente nella parte che probabilmente ci credeva pure lui in quello che cantava e presentava al pubblico.
Anche a volerlo considerare per quello che effettivamente è stato, ossia un interprete che ci mette la faccia, con personalità enorme, e la voce, beh non è poco, e se vogliamo soffermarci sull’eredità e i lati positivi, la cosa che mi viene da sottolineare più di tutte è proprio la sua voce.
Sgraziata, a tratti indifendibile, quella voce di cui nessuno parla mai, poco edulcorata, con quelle caratteristiche mai sgrezzate dai produttori di grido che ci misero mano, talvolta facendo danni enormi. Il paragone naturale, che si protrae dalla notte dei tempi e promette di fracassare le parti basse delle future generazioni, è ovviamente con il suo successore nei Sabs, Ronnie James Dio.
A dispetto di ciò che si racconta, il capolavoro Heaven And Hell e il più travagliato Mob Rules non sono stilisticamente poi tanto diversi dai dischi della vergogna dell’era Ozzy (mi riferisco ovviamente Never Say Die e Technical Ecstasy). Momento, non sto dicendo che questi due fossero al livello dei lavori con Dio, si capisce però ascoltando la fase prima del divorzio con Ozzy, che sono sì lavori minori, non molto ispirati, ma che è da lì che Iommi iniziò a tirare la baracca da solo; passava intere settimane e forse mesi in studio a lavorare sugli arrangiamenti, gli abbellimenti eccetera, mentre gli altri assomigliavano a tre zombie fatti di qualsiasi cosa che aspettavano di registrare la loro parte e andare a sbronzarsi e riempirsi di schifezze.
Musicalmente già non erano più quei Sabbath scuri e pesanti della prima ora che piacciono tanto agli stoner, le strutture delle canzoni erano molto più leggere e levigate, un po’ più da rock classico per capirci.
Insomma, non ci sento questo salto enorme tra i Sabbath del ‘78 e quelli dell’80 a livello di scrittura e stile. La grande differenza sono alcune canzoni portentose, la produzione di Martin Birch, ovvio, ma soprattutto la voce: quello è il motivo per cui quando metti nello stereo Never Say Die e poi Heaven And Hell sembra di sentire due gruppi distinti.
Dio infatti era uno che con la voce andava in mezzo alle note e agli spazi vuoti per fare le sue cose, Ozzy è uno che più o meno seguiva il riff con le sue cantilene un po’ beatlesiane, e detto questo aveva una voce che pur con tutti i suoi limiti, è unica e per quanto abbia influenzato o ispirato molti cantanti nelle generazioni successive, sono stati quasi tutti condannati a scimmiottarlo, perché quella di Oz è una voce irripetibile.
Ciò che forse mi resta di più dell’entusiasmo giovanile per Ozzy, oltre al personaggio istrionico e talvolta buffo, è questa ugola incredibile e fuori dagli schemi. Quello che ho sempre notato e che mai come adesso è venuto fuori in maniera prepotente, è che non esiste una cover dei Sabbath di Ozzy che funzioni, non tanto per la parte musicale, quanto per la parte vocale e ne abbiamo avuto prova anche al Back To The Beginning.
O la canzone viene stravolta e inserita in uno stile completamente diverso, oppure il risultato è tendente al disastro.
Il Live Evil con Dio è un caso di studio. Stiamo parlando di Ronnie James Dio, probabilmente la voce per antonomasia del metal classico che tuttavia su quel disco compie degli autentici scempi. Quella è la performance di un cantante in evidente difficoltà, e ricordiamo che sono le versioni finite in studio, opportunamente scelte e selezionate fra le migliori.
Sappiamo poi che su Live Evil la band aveva rimesso mano ai nastri facendoci di tutto e mandando di fatto a puttane la band, figuriamoci se non erano le versioni migliori che potevano fare.
Qualcuno ricorderà che nel ’92, nel famoso periodo in cui si alternavano nervosamente Dio e Tony Martin, Rob Halford sostituì Dio per una serie di concerti negli Stati Uniti; ci sono bootleg anche video di quel tour che girano da anni e Halford se la cavava piuttosto bene sui pezzi di Dio, con la consueta classe che lo contraddistingue, ma i brani del repertorio di Ozzy hanno una resa orribile.
Su “Nativity in Black” c’è Bruce Dickinson che fa “Sabbath Bloody Sabbath” con una backing band di ospiti che non ricordo; Bruce Dickinson sui toni alti di Ozzy è imbarazzante, una cover dal punto di vista vocale orribile e nell’ultimo tribute show di Birmingham ho sentito cose analoghe. O personalizzi la tua cover totalmente, oppure cantare Ozzy resta di una difficoltà unica.
Al concertone i soli ad aver fatto una figura dignitosa, secondo me, sono stati Tobias Forge e Youngblud che con quelle vocine un po’ pop, non certo da tenore metal, se le sono riadattate in uno stile giusto per loro, privilegiando la linea melodica più della potenza.
Ne è uscito secondo me un risultato dignitoso, ma chi provava ad andare di potenza con Ozzy, ecco che sbatteva contro un muro, soprattutto nei pezzi che vengono da quei dischi che io adoro come Sabbath Bloody Sabbath e Sabotage, due opere spesso in secondo piano dove Ozzy canta con una forza allucinante alla stregua di un megafono.
Non mi esprimerò più di tanto su Back To The Beginning; sono stato spettatore “in diretta” dei vari Live Aid, Human Rights Now e il Freddy Mercury Tribute e il ricordo di quegli eventi è ancora vivo nella mia generazione, al punto che col tempo sono stati rimessi sul mercato in tutti i formati possibili.
L’evento di Birmingham, con tutti i suoi limiti e i suoi però, è stato la cosa che più si è avvicinata a quelle cose là. Eventi che si incastrano nella memoria collettiva e non solo per le dimensioni della cosa in sé: c’è l’effetto sorpresa, vedere band blasonate mischiarsi e misurarsi in contesti estranei rispetto alla propria dimensione artistica (oggi si direbbe “comfort zone”), la prova ulteriore che rimescolarsi, nella vita di tutti i giorni come nell’arte, produce sempre qualcosa di inedito, anche a livello di sensazioni.
E’ successo quindi che abbiamo gioito nel sentire i Black Sabbath, inorridito nel sentire questa o quella cover; ci siamo stupiti per la performance dell’ospite inatteso e persino commossi sulle note di Mama I’m Coming Home. Ozzy è riuscito, caso forse unico nella storia, a tributare se stesso un attimo prima di andarsene. Se mai ci fosse un modo migliore per farlo, sempre che esista davvero, la firma ce l’ha messa lui, Mr. John Michael Osbourne, e di certo non può essere un caso.

