L’uccello dipinto non è una fiaba nera

Senza farlo apposta, ho l’impressione che i libri che leggo in questo periodo siano tutti un po’ collegati. Prima c’è stato Memorie di un ratto, scritto da un polacco, un poeta di nome Andrzej Zaniewski. Poi c’è stato La morte corre sul fiume, il romanzo da cui è tratto il film con Robert Mitchum, stavolta scritto da un americano, Davis Grubb, su due bambini inseguiti da un serial killer durante gli anni della Grande Depressione. E ora sono arrivato, sempre per caso, a L’uccello dipinto di Jerzy Kosinski, altro autore polacco, ma stavolta trapiantato negli USA già da ragazzo e quindi di lingua inglese.

I tre libri sono intrecciati anche per altre ragioni. Le memorie di un ratto è un libro spietato che racconta, attraverso gli occhi di un roditore, sia il proprio  mondo che quello altrettanto bestiale degli uomini, in tempo di pace e soprattutto di guerra. La morte corre sul fiume (Night Of The Hunter) mostra come i bambini, spersi nel bosco della vita, sappiano cavarsela alla grande in un contesto di orchi e lupi molto realistici.

L’uccello dipinto è una summa dei due volumi. C’è un bimbo ebreo, che durante la guerra è “gettato” nel mondo degli adulti e deve scappare da un sacco di cose. Come i due piccoli fratelli del romanzo di Grubb fugge, si sposta sempre, piccolo ebreo errante, ma non da un cattivo. Lui si allontana dagli uomini e si deve rivolgere comunque ad altri uomini e non ne trova quasi mai di comprensivi, generosi o semplicemente umani.

Ne passa tante quante il povero roditore di Zaniewski. C’è persino un momento in cui osserva dei topi che si divorano tra loro e sembra di leggere lo stesso libro, solo che nel caso di Kosinski, le cose non cambiano quando descrive uomini che linciano qualcuno o che stuprano delle ragazzine. Tutto è inevitabile, consumato nell’indifferenza di dio.

Anche nella struttura, i due libri si somigliano molto, perché dopo un po’, come il ratto passa di pagina in pagina attraverso situazioni cruente e rischiose ma via via sempre uguali, questo povero bambino, cadendo e ricadendo continuamente dalla padella alla brace giù per l’imbuto dantesco della polonia villica, Kosinski rende la sua traversata sadica quasi routinaria; così ripetitiva da produrre nel lettore un effetto desensibilizzante e di noia. Come nel porno.

Cosa probabilmente voluta da entrambi gli autori. Vediamo quanto ci mettete, sembrano dirci, a perdere la vostra delicata sensibilità, quando finirete le lacrime e inizierete a sbadigliare. Ecco, questa è la realtà di cui vi parliamo. Un posto in cui le cose inaudite che oggi siete soliti divorare come patatine nei podcast truecrime e magari a piangerci su per l’impressione, erano la vita vera di tutti i giorni, quella della guerra e dell’arretratezza culturale, in cui saremmo finiti per sguazzare anche noi, trasformandoci in vittime o carnefici, a seconda della situazione.

E nonostante il bimbo Kosinski venga proprio dalla Polonia e abbia passato la sua infanzia in quegli anni terribili e nel contesto rurale, non ha direttamente vissuto ciò di cui racconta. Quindi non possiamo nemmeno accettare l’affastellarsi sadiano di perversioni e schifezze ai danni del piccolo protagonista, con la scusa che è storia autentica. Narrativamente sembra più una roba in stile Justine, ma senza compiacimento nel voler dimostrare una teoria morale o stuzzicare la lussuria più bieca dei lettori.

L’atmosfera è per certi versi poetica, ma non fiabesca, esattamente come quella tinteggiata dalla prosa zuccherosa e sinistra di Grubb, così simile al miglior Bradbury. Nel caso di Kosinski è come se il vecchio Ray incontrasse Hubert Shelby Jr. di Ultima fermata Brooklyn.

Stephen King inserì L’uccello dipinto nel suo elenco di libri raccomandati in coda al saggio Danse Macabre. Si tratta di un romanzo atroce, con momenti difficili da sostenere, anche per chi si vanta di avere uno stomaco forte, ma non credo sia questo il motivo di una simile scelta da parte sua. Nel suo romanzo, Kosinski, è bravo a condire gli orrori della guerra con un altro tipo di tenebre, quelle più metafisiche e ineffabili dei boschi di notte, che nascondono le prede ai predatori diurni, ma le consegnano a quelli notturni, reali o immaginari. Il giovane è vittima in fuga dai tedeschi e le loro affascinanti divise con i teschi, come dalle streghe a cui trasforma, grazie a uno scongiuro, le mani ossute in rametti da spezzare con un sol calcio.

C’è un punto del libro che secondo me rappresenta al meglio ciò di cui sto parlando, vale a dire il capitolo dei Calmucchi. Ora, se non avete idea di chi siano stati questi figuri, dopo aver letto L’uccello dipinto avrete tutte le informazioni sufficienti per non conoscerli e non dimenticarveli mai più. Nonostante il capitolo in cui Kosinski, sempre dal punto di vista del piccolo protagonista, racconta le inarrivabili nefandezze che compiono i suddetti Calmucchi ai danni di un piccolo villaggio, roba che il finale del capolavoro russo Va e vedi sembra una storiella del Corriere dei piccoli, quando poco dopo gli stessi Calmucchi vengono catturati dall’esercito sovietico e messi a testa in giù a degli alberi, in attesa di un’esecuzione, il bambino davanti a loro, osservandoli sanguinanti e agonizzanti, sente arrivare qualcosa di più tremendo, un vento freddo e terribile che si alza da lontano e inizia a far ciondolare quei corpi appesi ai rami, aumentandone gli spasmi e le suppliche: è la morte che viene a prenderli.

Così come nel romanzo di Grubb i bambini riescono a cavarsela davanti a un mostro come il reverendo Powell, questo piccolo ebreo-polacco sopravvive a un’intera umanità mostruosa, affrontando la realtà più cruda e indigesta, ma dal proprio livello d’azione e di comprensione. Per chi si domanda come abbia fatto il giovane Samson a sopportare tutte le sevizie e violenze dello zio Gordon Northcott, il killer del pollaio, e non si sia ucciso molto prima di essere tratto in salvo in fin di vita dai poliziotti, beh, dovrebbe leggere questo romanzo, perché mantiene fino in fondo il medesimo interrogativo e secondo me, offre una risposta.

L’uomo vuole fottutamente vivere, se messo in condizioni di morire.

Kosinski gliene fa passare così tante, al piccoletto, che potreste pensare sia un inspiegabile odio ad averlo mosso verso il personaggio per tutta l’opera. Non c’è mai compassione per il ragazzino, né un attimo di respiro. Eppure lui vive, resiste a qualsiasi cosa finché è il mondo a volerlo mangiare.

Sarà dopo a diventare tutto insopportabile, quando sarà portato in salvo e al sicuro in un orfanotrofio e poi riconsegnato al padre redivivo. Sarà da lì che il suo mutismo gli impedirà di ricollegarsi con un mondo di pace e di speranza, sopravvissuto come lui a tanto orrore.

Kosinski scrive un romanzo che solo nel finale concede un po’ di speranza al lettore, quando il piccolo desidera di nuovo parlare a una voce sconosciuta al telefono, ma sembra tanto una forzatura prodotta dall’editore.

E anche se sappiamo che quel bimbo non è Kosinski e che riprenderà a parlare e a sognare, amare e tutto il resto, allo stesso modo sentiamo che quel bambino si ucciderà, esattamente come il suo dio.

L’autore infatti si ammazzerà diversi anni dopo, da uomo di successo, ormai assimilato alla società intellettuale ebrea newyorchese. Farà la fine di tanti sopravvissuti ebrei alla guerra, incapaci di darsi la risposta alla domanda delle domande: perché io sì e tutti quegli altri no? Ne parla anche Jasper nel suo discorso sulle colpe della Germania, vale a dire l’interrogativo metafisico. Perché noi tedeschi viviamo e tutti quegli ebrei sono morti?

E a proposito di metafisica, torniamo a Freud che avrebbe apprezzato molto L’uccello dipinto, secondo me. Lui infatti diceva qualcosa di molto interessante sui bambini e l’orrore del mondo da cui i grandi, pensando di far bene, li tengono nell’ignoranza: non ha senso escluderli da esso. Se si evita di condividere con i nostri piccoli gli aspetti più duri e minacciosi della vita, vale a dire la violenza e la morte, non cresceranno davvero sani e capaci di affrontare il mondo.

Per prima cosa non li si preparerà mai a riconoscere e difendersi da un pedofilo se ne incontreranno uno, poi è inutile mantenerli ignoranti di fronte agli stupri e agli omicidi, perché i nostri figli sono costruiti per elaborare qualsiasi cosa della loro vita, anche le più tremende. Sapranno accettarne l’essenza in un modo che gli permetterà di metabolizzarne il senso al loro livello e andare così avanti, completando un disegno sulle cose che è comunque disinnescato in gran parte da visioni animiche, fantastiche, sognanti, ma senza escludere nulla del mondo in cui comunque vivono e crescono. Come dice la signora Cooper nel finale del libro di Grubb: “i bambini resistono, sempre, a tutto. Sono indistruttibili. Siamo noi grandi che andiamo in pezzi davanti alle difficoltà della vita, non loro”.

Quante volte da adulti capiamo di aver vissuto situazioni orrende e di non averle comprese del tutto alla giovane età in cui ci siamo trovati a viverle. Non è che non le capivamo, ci stavamo solo proteggendo per andare avanti. Anche oggi lo facciamo, ma siamo meno bravi, a mano a mano che diventiamo grandi.

Questo meccanismo infantile protegge i nostri figli e allo stesso tempo gli permette di conoscere il mondo un passo alla volta, secondo la loro estensione motoria. Le fiabe a riguardo, traducono il buio che li minaccia ogni notte secondo un linguaggio che loro stessi comprendono e che non li spaventa. Vi siete mai domandati perché dormono tranquilli dopo che gli avete letto Hansel e Gretel o Cappuccetto Rosso?