Un giorno di 25 anni fa io e il mio amico di scorribande borchiate decidemmo che era l’ora di andare al negozio di dischi ad acquistarne uno nuovo; era un’abitudine, ogni qual volta riuscivamo entrambi ad accumulare la cifra necessaria – in media una volta a settimana – si andava a comprare un cd, il che significava un eccitante pomeriggio speso ad ascoltare musica e poi scegliere l’eletto da portare a casa e introdurre nella nostra collezione. Capitava anche di tornare a mani vuote perché, ascolta che ti riascolta, nulla ci smuoveva a tal punto da giustificare l’esborso. Questa volta era una delle tante volte che ci eravamo dati appuntamento per salpare alla ricerca del nostro Graal. Però avevamo stretto un patto diverso dal solito. Avremmo acquistato qualcosa di proibito, qualcosa che avrebbe potuto attentare alla nostra reputazione di metallers tutti d’un pezzo. C’era questa regola non scritta, il dogma reputazionale, secondo il quale certe band erano proprio fuori dal nostro range, vuoi perché erano “di moda”, vuoi perché erano osannate senza una ragione (secondo noi) valida e comprensibile. Cosa sarebbe successo se una di queste ci fosse piaciuta? Era un’eventualità da allontanare tuffandosi anima e corpo sui Watchtower, i Cynic o i Nocturnus (nel mio caso), sugli Amorphis, i Blind Guardian e gli Einherjer (nel caso del mio amico). Tutto vero, sino a quel giorno. Stringendo questa specie di patto segreto tra di noi decidemmo che ci saremmo fatti coraggio e, assieme, avremmo fatto ciò che singolarmente non avremmo mai osato fare, andare al negozio, scegliere il disco di una band con la lettera scarlatta e comprarlo. Ognuno avrebbe deciso il proprio e niente e nessuno avrebbe potuto sindacarlo. Così fu. Da parte mia rovistai sul fondo della mia cesta dei guilty pleasures più inconfessabili e alla fine me ne uscì con “Renegade” degli Hammerfall tra le mani.
Il mio amico invece optò per “Dawn Of Victory dei Rhapsody (non ancora Of Fire). Fuori dal negozio, con lo scontrino ancora in mano, ci accompagnò un brivido, quello di aver sfidato e frantumato un tabù; avevamo infranto le regole, avevamo messo piede in una terra sconosciuta, quella del mainstream.
Gli Hammerfall erano in giro dal 1997 e quando debuttarono con “Glory To The Brave” fu una specie di terremoto in ambito metal. Si avviava verso la sua chiusura il decennio più anti-metal che la storia ricordi, imbattersi in produzioni classicamente heavy era una rarità e spesso si trattava o di attempati attardati vecchiardi che erano stati sorpresi dalla tempesta (grunge/alternative/industrial/nu metal) durante la loro traversata nel deserto, o di scappati di casa che provavano a ripetere le gesta dei gloriosi padri senza aver mai neanche vissuto la golden age, risultando così fuori tempo massimo e spesso involontariamente ridicoli e inappropriati.
Scovare un disco ben prodotto e solido da un punto di vista heavy metal, senza suffissi, prefissi e aggettivazioni varie, era diventata un’utopia. “Glory The Brave” per qualche motivo creò sconquassi: la copertina sborona, la patria svedese che aveva guadagnato autorità (seppur in ambito estremo), una manciata di canzoni che sfacciatamente tributavano il passato anziché avventurarsi in generi contaminati e contemporanei.
Ovunque fu un tripudio di consensi, parevano arrivati gli Iron Maiden del 2000 (che nel frattempo erano tornati davvero con “Brave New World, bell’album che ricostituiva il sacro presepe con Bruce Dickinson al posto dell’usurpatore Blaze “vittima sacrificale” Bayley).
Quindici mesi dopo, gli Hammerfall bissavano con “Legacy Of Kings” accolto con identico giubilo, i salvatori del metal erano tornati e combattevano per noi, al nostro fianco, mentre nuovi epigoni e virgulti ne raccoglievano l’esempio e andavano costituendo i loro esercitini di supporto per riportare in auge la causa della Borchia, umiliata, calpestata e mortificata dal decennio terribilis appena conclusosi. Ci fu persino chi si spinse a dire che “Legacy Of Kings” fosse superiore al disco d’esordio.
Ora, il punto era che a me gli Hammerfall non avevano fatto scattare nessuna scintilla. Ero abituato al metal, quello doc, Virgin Steele, Cirith Ungol, Manilla Road, Armored Saint, Metal Church, le più alte colonne del Tempio avevano puntellato la mia formazione musicale e difficilmente gli Hammerfall avrebbero potuto impressionarmi.
Classificavo il loro sound come derivativo, enormemente derivativo, fastidiosamente derivativo, una band che non faceva altro che cercare di riproporre stilemi rodati senza aggiungervi assolutamente nulla di proprio, e anzi semplificando il più possibile per rivolgersi a un pubblico largo e di poche pretese.
Complice la carenza endemica di vero metallo, questa semplice ricetta si era dimostrata vincente e del resto bastava aguzzare un po’ l’ingegno per afferrarla; molte band avevano costruito intere carriere praticamente su un canone ripetuto all’infinito, con minime variazioni interne, dato in pasto ai propri fan. Certo chi aveva inventato qualcosa ne aveva almeno il merito della paternità, ma dal canto loro gli Hammerfall avevano il guizzo della freschezza, erano appena arrivati, avevano una produzione al passo con i tempi e non avevano polverose ragnatele sugli strumenti.
Non li avevo mai messi nel mirino, anzi li avevo sempre scansati con una certa boria. Quello che mi aveva fregato era stato il video di “Renegade”, per quanto cercassi di mentire a me stesso quella canzone mi piaceva, banale, semplice, lineare, già sentita, tutto vero… ma mi piaceva e quando mi capitava davanti agli occhi l’ascoltavo da cima a fondo. Fu abbastanza naturale quindi orientarmi su quel disco quando si trattò di scegliere il mio acquisto proibito di quel giorno.
Credo che il mio amico abbia vissuto un travaglio simile con i Rhapsody. Se possibile la situazione dei Rhapsody era ancora più imbarazzante. Se con gli Hammerfall avevo accettato di abbattere le mie barriere della vergogna, con i Rhapsody ammetto che non ce l’avrei mai fatta, erano davvero troppo oltre (per me).

Nel massimo rispetto di chi li apprezza e li ascolta, che potrà vivere benissimo senza il mio giudizio negativo, li ho sempre reputati improponibili, oggi si direbbe “cringe”. Pacchiani, caricaturali, rutilanti, tanto nella musica quanto nei loro pretenziosi e velleitari concept fantasy. In un’intervista Lione o Turilli, non ricordo quale dei due, diceva di essere rimasto molto impressionato dalla trilogia di Peter Jackson su “Il Signore degli Anelli” e di aver deciso di creare un’epopea fantasy sulla quale erigere la propria architettura musicale. Alla domanda dell’intervistatore se avesse mai letto Tolkien la risposta fu “no”. E quello scambio di battute mi sembrò ritrarre perfettamente lo spirito e la natura dei Rhapsody: un castello issato sui film ispirati a un’opera che non avevano mai letto e che è “solo” la Bibbia del fantasy, genere al quale i Rhapsody avevano deciso di appartenere.
La forma che si fa sostanza. A parte queste considerazioni, rimane il fatto che il loro power metal enfatico, declamatorio, iperbolico, gonfio e melodrammatico proprio non mi piaceva; gli Hammerfall potevano almeno contare su una certa asciuttezza di fondo, derivativi si, ma scarni e diretti, e in questo meno megalomani.
Il maghetto Jesper Strömblad se ne era andato via già ai tempi di “Glory To The Brave”, volendo dedicare tutto il proprio tempo agli In Flames (in realtà nel 1999 era in forze anche ai Sinergy), ma continuava comunque a collaborare al songwrting per mantenere una certa coerenza interna al progetto. Anche su “Renegade” c’è la sua zampa e tutto sommato l’album prosegue sulla falsariga di quanto offerto sin lì.
Il feedback della stampa tuttavia non fu lo stesso, l’album venne generalmente ben accolto ma era evidente lo scarto di entusiasmo rispetto ai due capitoli precedenti. “Renegade” era più essenziale, laconico, ancora più snello e diretto di “Glory To The Brave” e “Legacy Of Kings”.
Vero o no che fosse, a me l’album piacque, trainato da quel portento che era (ed è) la title-track. Per carità, non tutto è perfetto in quei solchi, si pecca di pedanteria, qualche momento gira a vuoto, e il senso di già sentito imperversa, ma quello appartiene costitutivamente al DNA degli Hammerfall, inutile chiamarlo in causa come difetto all’altezza del terzo album, quella è la band, prendere o lasciare.
E io avevo preso. Non sono mai tornato indietro, intendo che non ho mai recuperato i primi due album, anche se li ho ascoltati su YouTube, ho solo proseguito avanti.
“Crimson Thunder” è un disco la cui title-track nuovamente mi si è stampata in testa come la croce rovesciata sulla fronte di Glen Benton.
Dopodiché è andata come è andata un po’ con tutti gli album degli Hammerfall: una scaletta altalenante fatta di canzoni molto buone accanto ad altre modeste o persino mediocri.
Devo dire che i due album dove questo saliscendi l’ho avvertito meno sono proprio i due appena citati, “Renegade” e “Crimson Thunder”.
Con gli acquisti sono arrivato fino a “Threshold”, poi mi sono fermato perché non ne valeva più la pena e perché la formula compositiva della band, già di per sé non originale, iniziava a ripetersi stancamente. La ripetizione della ripetizione praticamente.
Per doveri di scribacchino di webzine in realtà ho proseguito con gli ascolti, occupandomi di “Infected”, l’album eretico nel quale gli Hammerfall cercarono di darsi una rinfrescata e indossare una nuova pelle, suonando un heavy metal più roccioso, oscuro e moderno, meno compromesso con il power, con il fantasy e con il retaggio classico.
“Infected” mollò il logo tradizionale e la mascotte Hector sempre in copertina, ma non venne accolto affatto bene dal pubblico e dalla critica. Al punto che gli Hammerfall ritornarono prontamente sui propri passi con “(r)Evolution”, una rivoluzione al contrario, una controriforma.

In tutta onestà, pur reputandolo un disco imperfetto e non completamente riuscito, mi aveva ispirato assai più simpatia “Infected” con tutta la sua voglia di cambiamento ed emancipazione, anziché il ritorno da figliol prodighi di “(r)Evolution”. C’è sempre qualcosa di insincero nelle band che dopo aver sperimentato e osato (e aver preso sonori schiaffi in termini di copie vendute), si rimettono sulla strada vecchia, con la cenere in testa, quasi chiedendo scusa al pubblico.
Quelle diventano band guidate dai fans anziché viceversa, sono in ostaggio e si riducono a eseguire del puro fan-service. È accaduto ai Metallica con “Death Magnetic”, ai Megadeth da “The System Has Failed” in poi, ai Kreator di Violent “Revolution” e album a seguire, gli esempi in tal senso si sprecano (purtroppo).
Per quanto riguarda gli Hammerfall, li ho poi persi di vista. Ascoltando episodicamente estratti dai loro album 2016 – 2024 ho sempre fatto una gran fatica a cogliere qualcosa di interessante, vivido, pulsante, croccante, mi pare che la coazione a ripetere l’identico, album dopo album, sia proseguita militarmente. Ciò che rimane agli atti è come per tutto un certo periodo, direi il decennio a cavallo tra ’90 e 2000, la band sia stata avversata, presa in giro e ridicolizzata da chi vedeva negli Hammerfall una parodia dell’heavy metal, degli scappati di casa indegni di sedere alla tavola di Re Artù, e perlomeno fino alla pubblicazione di “Renegade” tra questi fini esegeti della spocchia c’ero anche io.
Per qualche motivo gli Hammerfall si sono sempre portati dietro questa patente di inadeguatezza, sono stati persino oggetto di contestazioni feroci e agguati, basti ricordare l’aggressione a Joacim Cans (e alla sua fidanzata) nel 2022 in un locale di Goteborg, che gli costò ben 25 punti attorno a un occhio, perpetrata da un giustiziere che – riportano le testimonianze dell’epoca – indossava una maglietta black metal e aveva insultato tutta la sera Cans e la sua musica.
Tutto sommato si tratta di appena 3 anni fa, eppure sembrano sideralmente distanti i tempi nei quali contro gli Hammerfall era in atto una vera e propria guerra di religione, una caccia alle streghe da parte di auto-nominatisi tribunali Inquisitori.
Oggi fa abbastanza sorridere quel tipo di atteggiamento e di oscurantismo, per quanto ci saranno in giro sicuramente sacerdoti che tutt’ora li praticano, se non con gli Hammerfall con qualche nuova band “inidonea”, priva del certificato di autenticità rilasciato dal Gran Consiglio del Vero Metallo Supremo.
Forse gli Hammerfall non mi hanno mostrato la via del Metallo e non mi hanno insegnato la Borchia, ma sono stati la mia terapia dell’indulgenza e dell’umiltà. Questi ragazzi hanno semplicemente messo su una band e hanno portato avanti un sogno che presto è diventato anche una professione; loro malgrado sono diventati il fuoco di dispute ideologiche che poco o nulla hanno a che vedere con il loro diritto legittimo di fare musica, come pare a loro, ma poco o nulla hanno a che fare anche con l’intelligenza e la maturità delle persone, affaccendate nella pratica di integralismi e discipline di purezza che stanno alla musica e più in generale all’arte come le ordalie medievali stavano alla spiritualità.

