Payne’s Gray – La ricerca onirica del prog metal

Nella discarica capita di tutto. Spesso oggetti nuovi, mai usati. E così anche dischi inascoltati e che sorprendono per quanto siano belli. Può capitare in tutti i generi e sottogeneri. Ci sono band thrash o glam che se avessero avuto l’attenzione del pubblico, e quindi, se ci fosse stata un’etichetta in grado di spingerli nel modo giusto, avrebbero potuto cambiare il corso stilistico di quei generi. Ci sono gruppi che, grazie alla rete, sono diventati punti di riferimento oggi (vedi i Manilla Road) più di quanto lo siano stati in passato, quando non era così facile accedere alla loro musica; causa etichette e distribuzione di merda.

Nel progressive metal poi capitano tra le mani certe cose incredibili e sconosciute, a un livello ormai quasi esoterico. E non mi sorprendo che sia così. Il prog, anche nell’ambito borchiato e tellurico, ha sempre perseguito soprattutto la qualità, l’originalità, la ricerca e la sperimentazione, tutte cose che non piacciono al pubblico grosso, affamato di banalità, di risentito, di piattume e luoghi comuni. Fior di musicisti mai divenuti famosi, hanno realizzato concept ricchissimi di influenze e di idee e sono rimasti nel nulla, ad aspettare dormendo.

Per esempio qualcuno conosce i Payne’s Gray?

No, vero?

Eh, già tanto che abbiate sentito parlare di Heir Apparent o Mekong Delta. Questi pure sono nomi che risuonano in giro da decenni, ma poche persone sanno davvero di cosa parlino quando li citano.

I Payne’s Gray erano un sestetto tedesco pieno di talenti, un insieme molto brillante ma non abbastanza per essere avvistato nei recessi, o se vogliamo usare una parola che è tornata di moda negli ambienti intellettuali, nelle “latebre” più inarrivabili del pozzo di ignoti 1 che precede la fornace dell’oblio assoluto.

Fecero un solo album che uscì nel 1996 e raccolseso buone recensioni, anche se chi le scrisse non resistette e confessò tra gli elogi qualche perplessità. Perché i Payne’s Gray non erano abbastanza metallici e le cosiddette canzoni sembravano più che altro una sola grande composizione o se volete un’astronave con la bussola difettosa.

I Fates Warning un anno dopo sarebbero usciti con A Pleasant Shade Of Grey ma loro potevano permettersi una simile stranezza fuori-tempo e inoltre sfruttarono una intensa campagna stampa nel tentativo di spiegare ai giornalisti che era una canzone lunga un’ora ma divista in tanti movimenti eccetera eccetera.

Nulla che nel vecchio progressive rock non fosse già stato sperimentato, sia seriamente che per dileggio (i Jethro Tull provarono entrambe le combinazioni) ma negli anni 90, il pubblico metal era partito da zero con i Dream Theater e loro più che lanciarsi in una composizione di quasi venticinque minuti con A Change Of Season, non erano ancora andati.

Kadath Decoded non ha micro-strutture pop che potrebbero tenere in piedi i brani da soli. Sono dei segmenti, talvolta così dilatati e randomici da non offrire punti di riferimento. L’ascoltatore deve affidarsi e seguire il corridoio sicuro che prima o poi si aprirà su una nuova stanza, solo che quella stanza non avrà la forma rassicurante di un cubo con le finestre, potrebbe avere quella di un triangolo che dà su un altro corridoio ancora più stretto e scoraggiante.

Quando entrano le chitarre pesanti, nella parte denominata Moonlight Waters e le due voci duellano e poi si fondono in armonie melodiche operistiche in stile King Diamond (esatto, parliamo di due vocalist come Kiske o Arch, quelle voci lì, che si danno filo da torcere nello stesso disco) c’è pane buono per i denti di tutti i patiti di Fates Warning e Dream Theater, ma a patto che non ci si chieda come si è arrivati a quel punto, tra l’interludio strumentale di Dream Sequence, la teatralità declamatoria delle voci in Sunset City e i ritmi serrati in stile Rush di The Cavern of Flame.

A volte la scena è tutta lasciata a un piano o un flauto, a delle volute di effetti orchestrali che vi abbandonano soli e sconvolti nel deserto arrostente, prima che una linea melodica o un riffone possa, come un’insperata corriera, raccogliervi e ricondurvi sui binari più famigliari e idratanti dei tempi dispari e dei vocalizzi sovrumani a cui siete avvezzi.

Vedete, ci sono due tipi di progressive: i Dream Theater che sono come un viaggio sulle montagne russe, emozionante, stravolgente ma indiscutibilmente al sicuro, con un percorso definito e prevedibile al termine del quale sarete sempre gli stessi, un po’ frullati e frastornati ma sempre voi, sani e salvi e pronti al prossimo divertimento. Poi ci sono gruppi che vi portano nella giungla con loro e vi offrono un’avventura emotivamente molto intensa ma con momenti di terrore puro e disperazione perché sembra che né loro né voi verrete mai davvero fuori da quella selva oscura. I Payne’s Gray sono quel tipo di gruppo e il disco di cui vi sto parlando è quel genere di viaggio, capite?

Kadath Decoded è un lavoro autoprodotto al tempo in cui non avere un’etichetta significava morire male dopo pochi giorni di vagiti e merda e buio e freddo malvagio.

Ispirato a uno dei pochi romanzi di Lovecraft (quello del ciclo di Randolph Carter) si tratta di un disco che palesemente ha raccolto ciò che a livello commerciale poteva sperare: il nulla. Ma se gli date una possibilità, almeno voi che siete in fissa con il prog vero, sarete ricompensati.

Crescerà con gli ascolti, cosa meravigliosa quando succede, fino a diventare gigantesco e imponente quasi al punto di sovrastarvi. O magari vi rimpicciolirete voi, come Alice dopo il biscotto sbagliato e morirete disperati in una piccola zuccheriera sbreccata.