Nel 1986, King Diamond, abbandonando l’alcova primigenia dei Mercyful Fate, che non offriva più piaceri carnali soddisfacenti, e propone al mondo la sua nuova amante: Fatal Portrait, disco idealizzato come un terzo sigillo del male rituale, una sintesi e al contempo una disgregazione. La cesura è simile a quella che Nietzsche evocava tra Apollineo e Dionisiaco: da un lato la forma, la misura, la razionalità delle strutture melodiche e liriche; dall’altro il caos oscuro delle passioni, della vendetta, della maledizione.
In tale orizzonte di eventi l’album si configura quale corpus magmatico in cui ogni nota è «une petite musique de nuit», un piccolo requiem notturno, un’offerta sacrificale al dio delle tenebre, che invita l’ascoltatore a perdersi e ritrovarsi.
In principio, come nell’oracolo di Virgilio alla selva oscura, Fatal Portrait si presenta quale “lux in tenebris” (luce nelle tenebre), un artefatto musicale carico di una tensione metafisica che trascende la mera dimensione dell’arte sonora per divenire “speculum animae”, specchio dell’anima e della sua doppiezza.
“L’homme est un roseau pensant”, come rifletteva Pascal nel diciassettesimo secolo, ma qui la rosa si fa spina, la meditazione si fa incubo, e il pensiero si disvela nelle pieghe di una tragedia interiore, incastonata tra melodie e riff che, più che musica, sono incantesimi d’ombra.
Fatal Portrait ci offre quindi, non una semplice narrazione, ma una meditazione sull’essere “entre deux mondes”, tra vita e morte, materia e spirito, luce e tenebra.
Le liriche si fanno poesia decadente, “Une enfant captive, aux mains de la mort”, evocate con accenti che sembrano dialogare con il Faust di Goethe o i versi di Baudelaire, dove il bello e il malefico si congiungono in un inestricabile abbraccio.
Molti i simboli, oggetti, persone, archetipi, che King Diamond svela e sottende al suo pubblico, sperando che qualcuno colga tali rimandi.
Il racconto di Molly, vittima e vendicatrice, richiama con forza l’archetipo junghiano dell’Ombra; quel lato oscuro dell’Io che porta con sé desideri e paure represse, il “locus tenebrarum” dove il male diviene necessario e “inevitabile”. Ella come la fanciulla di Poe o la Dama di Shalott di Tennyson, è prigioniera di un fato inesorabile, la sua sofferenza un “sacrificium doloris”, un rito di passaggio che nel dolore trova la sua catarsi.
La candela, principio e fine dell’album, è il fulcro di una sacralità rovesciata. Essa non è soltanto fonte di luce ma faro che illumina la dissoluzione, la “lumen inter tenebras”.
Nel simbolismo esoterico, la luce è la conoscenza, ma qui questa conoscenza conduce alla dannazione: “Lux lucet in tenebris, et tenebrae eam non conprehenderunt” (Vangelo di Giovanni 1:5).
La candela è dunque un totem ambiguo, la fiamma del Prometeo che brucia senza risparmio, simbolo di un’illuminazione dolorosa e di un sacrificio necessario.
La casa è un microcosmo dell’anima prigioniera, un labirinto di emozioni e ricordi che richiama il teatro barocco della vita, il “theatrum mundi”.
La soffitta dove Molly è incarcerata è il sotterraneo dell’Io, la cella dove l’inconscio si cela, l’antro di un mito personale, uno spazio liminale “interstitium” in cui si consuma la trasformazione iniziatica.
In sintesi, finalmente, la radice di Fatal Portrait pulsa come una meditazione sulla sofferenza, come strumento di conoscenza e trasformazione, un tema caro a Schopenhauer, per cui la volontà è dolore perpetuo e l’arte è l’unica via di fuga dal nichilismo.
Molly è l’incarnazione di questa volontà dolorosa, destinata a perpetuare il ciclo di violenza come forma di riscatto esistenziale.
Al contempo, il senso di vendetta è tragedia e liberazione, e richiama il superuomo nietzschiano, colui che si afferma attraverso la trasvalutazione di tutti i valori, sovvertendo la morale comune per abbracciare il proprio destino. “Was mich nicht umbringt, macht mich stärker” diventa per la fanciulla un imperativo metafisico, l’unica luce possibile in un mondo altrimenti avvolto da “dolor et amor”.
Sul piano musicale, Fatal Portrait è un affresco sonoro tessuto con l’intento di evocare non semplici sensazioni ma visioni, come se ogni riff fosse un geroglifico arcano. Le chitarre di Denner e LaRocque si muovono tra modalità dorica e frigia, generando un’atmosfera medievaleggiante, quasi una liturgia pagana.
Il riff iniziale di The Candle si articola in un moto perpetuo di quarti e quinte giustapposti, impiegando power chord con intervalli di quarta giusta che richiamano l’antico organum gregoriano, portando la musica in una dimensione rituale.
Gli assoli si dispiegano come arabeschi, attraverso l’uso di tecniche quali il bending cromatico e l’hammer-on, utilizzando scale minori armoniche, che conferiscono un’aura esotica e misteriosa, quasi orientaleggiante, alludendo a un viaggio sonoro oltre i confini del tempo e dello spazio.
La scelta di inserire cromatismi discendenti genera un senso di caduta, di abisso, un “descensus ad inferos” musicale.
La batteria di Mikkey Dee esprime con la sua percussione l’elemento ritmico sacro, con variazioni di tempo che interrompono la monotonia e creano un effetto ipnotico, simile al battito cardiaco accelerato della paura.
Le linee vocali di King Diamond, scandite da un falsetto teatrale e drammatico, diventano un vero e proprio “sprechgesang”, un canto parlato che si fa narrazione, evocazione, esorcismo.
Fatal Portrait non è solo un album: è un mito, un’epopea sonora che rinnova il patto fra arte e occulto, fra suono e parola, fra la figura del cantore e quella dello sciamano.
Come il Faust di Goethe o il Don Giovanni di Mozart, King Diamond incarna la figura dell’uomo in bilico tra redenzione e dannazione, tra la carne e lo spirito. Nel tessuto storico e culturale del metal anni Ottanta, questa opera si erge da faro oscuro; una rivelazione arcana destinata a segnare l’immaginario di una generazione.
In termini musicali, avrebbe potuto legittimamente costituire il terzo atto della tragedia del Destino Misericordioso, in quanto diretta emanazione spirituale di esso, fondendo in una sinfonia spettrale i temi e le strutture di Melissa e Don’t Break the Oath, con una intensità drammatica e un rigore compositivo ancor più raffinato.
Ma in quanto opera prima di un nuovo eone, essa ha vita separata e propria, scissa anche se con un imprinting inevitabile della madre. Gialla è la luce che divampa e illumina un ritratto bellissimo e maledetto. Noi godiamone, se riusciamo a coglierli, riflessi e le sfumature.