Per uscire dalle crisi ci vuole coraggio, solo che in Italia c’è un intreccio di problemi che alcuni chiamano “policrisi”, dove quella generale è determinata da un intreccio complessivo di più magagne. La musica può essere uno stimolo sorprendente per comprendere questo periodo e capire come cambiarlo. Propaganda e banalizzazione sono le vallette di classismo e materialismo e ogni sforzo di smontare questa congerie che sta spingendo interi sistemi verso il declino intravisto da Spengler e Toynbee pare vano. Peculiare è la divisione in fazioni, a seconda del tema sovrapponibile o con i componenti che s’intersecano:
le correnti sono composte di torti e ragioni tali che la gran parte della popolazione ha problemi a comprendere i fatti ed elaborarli per conto proprio, accettando di volta in volta le parrocchia più vicina alla propria indole. L’Italia ha una peculiarità nel rapporto non concluso col secolo scorso anche per motivi anagrafici: senza un impulso differente potrà durare almeno fino a quando non torneranno nell’altra dimensione gli ultimi a essere direttamente influenzati dai nati in quel secolo, ovvero dopo il 2100.La crisi della musica pare estranea, invece s’innerva con la sua carica di occasionale retorica che in genere mostra solo qualunquismo. L’interiorizzazione storica non funziona ovunque: il Rock sudista negli USA non è ben visto, i Rammstein sono ancora osservati con diffidenza. E proprio questi ultimi propongono una lettura della storia interessante: fare i conti col passato accettando anche ciò a cui non si aderisce (al proposito vi suggerisco di rivedere il bel video Deutschland).
In Italia oggi questo pare impossibile (figuriamoci proporre gruppi come i Sacred Reich): la crisi della qualità musicale smorza il potenziale di un tale approccio, perché dev’esserci una forma sonora appropriata con cui accompagnare un simile percorso, perciò ancora una volta bisogna guardare indietro per andare avanti.
In questo caso osservando musicisti che puntavano al passato, risultando più avanguardisti e illuminati dell’ultimo terzo di secolo. V’illustrerò tre passate sotto traccia davanti al naso di tutti, nonostante due di questi nomi siano famosi, uno anche all’estero.
Prendiamola da lontano: la realtà di un’Italia provinciale e al traino delle grandi potenze è complicata, perché oltre ai vari vassallaggi e al condizionamento britannico, oggi siamo schiacciati dai divieti imposti sul secolo scorso e i suoi episodi più esecrati, specie sul periodo 1919-1944.
In questo scenario inseriamo la storiografia dei rapporti col Giappone: senza citare Puccini, la vicenda che lega in modo cronologico letterati come Kitamura Tokoku, Bin Ueda e poi Harukichi Shimoi è degna di romanzi e saggi. L’interesse per l’occidente e in modo speciale per l’Italia nel Giappone, appena aperto al mondo, si tradusse nella vicenda avventurosa di Shimoi: appartenente a una famiglia di Samurai, volontario con gli Arditi durante la grande guerra, legionario fiumano, amico di D’Annunzio, docente di lettere all’orientale di Napoli, impegnato nel raid aereo Roma-Tokyo del 1920, traduttore di Dante in giapponese…
Da parte nostra, oltre al lavoro del grande Fosco Maraini, la famiglia Scalise ha avuto in Guglielmo un curioso esponente di quel secolo turbolento perché mai scontato: durante il ventennio generale di brigata, addetto all’ambasciata italiana a Tokyo, docente di iamatologia (lo studio della cultura nipponica) e sul finire del 1943 prenderà contatto con i partigiani nel quale militava il figlio Mario, poi suo collega.
Storie non lineari, che disegnano percorsi di certi impulsi e sono altro rispetto allo sfondarsi di pseudosushi e il pupazzettismo dei Pokemon. Forse han più legami con Kurosawa e la sua magnifica appropriazione (di Shakespeare e nostra con molte pellicole del regista dopo la mossa di Sergio Leone), per non citare l’opera iniziatica Saint seiya.
Con la stratificazione di queste influenze sull’inizio degli anni 1980 l’Italia musicale è pronta al gran salto verso lidi imprevedibili. Dopo che Dalla e soprattutto Battiato avevano creato le premesse per assalti alle classifiche condotti con raffinatezza e arditismo sonori da combinare a melodie accattivanti, nel 1982 arrivò Kamikaze rock’n’roll suicide di Donatella Rettore.
Aiutata dal marito Claudio Rego, la svettante cantante appena uscita dalla trilogia discografica Glam pop del 1979-81 dominata da una vena divistica provocatoria e danzereccia, s’impegna in un concept che lega il tema del suicidio al il Giappone impegnato nella lotta mortale con gli Stati Uniti.
C’è chi lo attaccherà definendolo pretestuoso e superficiale o definirà come poco interessante la scarna sonorità, invece è un coraggioso tentativo di svolta new-wave poco compreso, tanto che dopo i due dischi seguenti, un po’ incerti, la cantante s’inabisserà nel peggior Pop sanremese.
Il suo è il tentativo apparentemente più moderato di questa rassegna, ma va contestualizzato: a Bologna era appena avvenuta una strage e qualcuno faceva un disco che mostrava la visuale dal lato di chi era alleato col fascismo italiano, con le cronache ancora piene del nome di Zorzi.
Ancora più coraggiosa la scelta dei Matia Bazar: impostisi sul finire del nostro rock progressivo; la loro vicinanza al Pop li ha fatti sempre disdegnare dagli oltranzisti del rock più duro o supposto impegnato e così consiglio di rivedere il live registrato nel 1981 per la televisione svizzera, al fine di cambiare la vostra prospettiva.
Con l’ingresso d’un nuovo tastierista (Mario Sabbione), il gruppo svolta verso la Germania elettronica con un coraggio simile agli Ultravox, per riappropriarsi del mondo tedesco: in Berlino, Parigi, Londra (l’ordine non è casuale) la versione di “Lili Marlen” dà tono al nuovo corso del gruppo.
Ma il coraggio puro è in “Fantasia”, suonata pensando che alla presidenza della Repubblica c’era Sandro Pertini: senza ironie e cinismi Antonella Ruggiero s’immedesima nei soldati della Wehrmacht sul finire del conflitto e la loro speranza nelle Wundervaffe.
Torneremo dopo sul gruppo, per via d’un loro brano molto attuale. Con il nostro sottobosco musicale percorso da Hardcore e Dark rock mentre Hard e Metal si muovevano con difficoltà si dovrà arrivare al 1987 perché un gruppo osi l’impossibile: i Disciplinatha, muovendo su suoni elettro-industriali e pulsioni Metal, col patrocinio dei CCCP fingeranno adesione al fascismo nell’Emilia paranoica per portare avanti questa tesi: l’italia che rifiuta il mostro ne è il suo frutto,
Coop, PCI e Sinistra extraparlamentare inclusi.
A livello visivo sulla congerie di divise da palco che useranno per impersonare un neofascismo sonoro, al posto dell’aquila romana apporranno quella di Armani.
La loro storia non muore negli anni ’90, nonostante il disvelamento delle loro opinioni reali (comunque ancora oggi poco intese) tant’è che dal decennio scorso il progetto Dish-is-nei e le collaborazioni con cori di Mondine e Alpini proseguono sulla strada dell’interiorizzazione della nostra Storia, in tutte le sue sfaccettature più ostiche.
Ma torniamo indietro, come sempre per andare avanti: nel 1983 la canzone Palestina dei Matia Bazar rappresenta per oggi un affronto al pensiero dominante: provoca un cortocircuito notevole.
Nel testo per molti criptico ci sono chiavi di vari spetti odierni: nel mondo discografico che gli Stormy Six salutavano con un concept sul riflusso nel consumismo, dire che l’antico oracolo della sorella sfinge è impotente di fronte a un turista in cerca d’un albergo, era lo stesso tema affrontato dal gruppo sopracitato, ma detto col linguaggio associativo-simbolico-esoterico del bassista e paroliere Aldo Stellita.
E ciò, nei video in cui le pose plastiche della Ruggiero nel ritornello in cui intervallava pugno chiuso e saluto romano, intesi da molti come sterile provocazione tardo punk, delineano il punto decisivo: Italia e Palestina terre bagnate dal sangue e divise all’interno dai fanatismi, che spesso sono quelli di chi nega un estremismo, sonoro o politico.

