Wake In Fright e l’uomo che non mangia più canguri

Sono un fanatico di libri, film e musica horror, ma il mio terreno di caccia è quasi sempre al di là del genere dichiarato. Se esce Saw 18 o l’ennesima storia di fantasmi girata da James Wan, se qualcuno strombazza di un novello Stephen King, io passo. Ho bisogno di qualcosa che scivoli nei territori della paura per strade davvero inaspettate. Lo stesso King in Danse Macabre non fa che segnalare libri e film fuori dal circuito specifico delle etichette. Film e libri che sono spaventosi ma che non volevano esserlo o che lo sono senza avvertire, prendendoti “alla traditora”, magari in fondo a un apparente dramma d’autore (Improvvisamente l’estate scorsa, In Cerca di Mr. Goodbar), un film d’avventura (Un tranquillo week-end di paura) o una fiaba nera moderna (La morte corre sul fiume).

Se vogliamo parlare di libri, beh, ce ne sono un paio davvero interessanti. Sul primo ho già scritto da qualche tempo (L’uccello dipinto di Jerzy Kosinski), del secondo parlo qui, Si intitola Wake In Fright di Kenneth Cook. Sì, c’è anche una bellissima trasposizione di Ted Kotcheff e di sicuro il film non è da meno della fonte letteraria. Il solo torto dello sceneggiatore Evan Jones e di aver deciso di mostrare quello che il protagonista non ha il coraggio di raccontarci nel libro. E ovviamente non c’è nulla che un film mostri in grado di competere con quello che la mia mente riesca a immaginare, se sollecitata nei modi giusti. E Cook sa il fatto suo, a riguardo.

Ora però badate bene a una cosa: Wake In Fright (uscito in Italia col titolo non proprio giusto, Un brusco risveglio) non è un horror, anche se qualche critico illustre ha ammesso di averlo subito come tale. In effetti il protagonista si ritrova calato in una realtà a cui non sente di appartenere e che giudica disgustosa: la vita dei burini australiani nelle terre selvagge dell’outback. Quindi si crea quella situazione tipicamente horror in cui un uomo arriva in un villaggio in cui la gente vive a un altro livello di civiltà (la loro) e rischia di non uscirne vivo .

The Wicker Man è questo, in sostanza. Ve lo ricordate? Il personaggio principale è un poliziotto cristiano ai limiti del bigottismo che si scontra con la popolazione isolana di Summerisle, dedita a una forma di neo-paganesimo priapesco e in fissa con le pire sacrificali.

La differenza con Wake In Fright è una sola: nel primo caso, il poliziotto inorridito da ciò che quella società così libertina “coltiva” rifiuta e decide di scontrarsi con una civiltà differente ma con la forza ne viene assorbito. Nel secondo il protagonista, John Grant, maestro di scuola dalla mentalità moderna, cede e si riduce allo stato bestiale (secondo lui) della popolazione di Bundanyabba (la gente del posto la chiama “Yabba”).

La cosa che accomuna entrambe le vicende è la difficoltà di un uomo civile, che si pretende a uno stadio superiore dell’evoluzione sociale, di riconoscere nei suoi simili meno “evoluti” e retrivi di una zona periferica e tagliata fuori dal mondo che prospera e cresce, le medesime gravose bestialità che governano la sua stessa natura.

John Grant non si ritrova ostaggio di una famiglia di cannibali, come i vari sventurati cittadini in vacanza nelle zone rurali del Texas, è semplicemente ospite di un gruppo di australiani piuttosto generosi e ospitali con lui. Non lo giudicano e non lo lasciano a secco, nonostante abbia perso tutti i soldi al gioco e non sappia come fare per tirare avanti tre settimane in una città perduta in cui non conosce nessuno e disprezza tutti quanti. Eppure noi spettatori, condividendo il punto di vista del protagonista, viviamo tutta la faccenda con grande angoscia; come se da un momento all’altro questi tipi possano rivelarsi psicopatici o pervertiti.

Certo, è il 1971 e Tobe Hooper e Kim Henkel non hanno inventato la famiglia Sawyer. Persino Deliverance uscirà l’anno dopo e in ogni caso, il film Wake In Fright non se lo fileranno nemmeno gli australiani:  in parte per via di una pessima campagna pubblicitaria e in parte perché offesi dal modo in cui vengono rappresentati.

Ma alla fine del film, dobbiamo ammettere che è John Grant lo stronzo, è lui ad aver vissuto come un tracollo imperdonabile una sana, per quanto davvero selvaggia, vacanza nell’outback.

E il protagonista di The Wicker Man, il sergente Neil Howie, che resisterà fino all’ultimo davanti alle licenziosità abiette dei cittadini di Summerisle e che farà ahilui, una brutta fine, in fondo non è il buono della situazione.

E tutti i vari ragazzotti e colletti bianchi che si recano in vacanza in zone dimesse e selvatiche degli Stati Uniti, trovando l’inferno in terra, in fondo non sono mai i buoni. I protagonisti di Un tranquillo week-end di paura, provano imbarazzo e superiorità verso la gente deforme e un po’ tocca dei piccoli borghi tra le montagne.

I teen-agers che vengono fatti a fette da Faccia di cuoio, dagli hippies del primo film, così ingenui e superficiali e gli Yuppies del seguito, vandalici e famelici di sensazioni, fino agli straniati e nevrotici esponenti delle generazioni X o Y o Z, hanno ragione solo perché la violenza non è mai giustificabile, ma in fondo sappiamo che il primordiale modo di vivere della famiglia Sawyer (e quella tra le colline di Craven, of course) è da dove veniamo e verso dove stiamo tornando.