Nothin’ But A Good Time – Vita e morte dell’hard rock anni 80

Ancora qualche considerazione sull’hard rock e la sua età dell’oro

No, non pensate a un manipolo di giovani scapestrati e poveri in canna, chiariamolo subito. I nati a cavallo fra gli anni ‘50’ e ’60, quelli che hanno dato vita a una delle stagioni musicali più spensierate di sempre, erano per lo più giovani bianchi della middle class americana, giunti a Hollywood dalle zone più disparate del paese a bordo di un furgoncino e una vagonata di sogni semplicemente per sentito dire e perché così facevano tutti. Qualcosa stava in effetti accadendo da quelle parti alla fine degli anni ’70, a rinnovare lo spirito pionieristico della West Coast ci aveva pensato prima di tutti un chitarrista, nato a Pasadena ma proveniente da un’altra galassia meglio conosciuto con il nome di Eddie Van Halen. Nessuno lo ammette in maniera netta nel libro “Nothing But A Good Time” ma la verità è che il compianto Eddie ha rappresentato per gli anni ’80 l’unico benchmark, il modello di riferimento di tutti i chitarristi con velleità di successo che hanno bighellonato per il decennio nella speranza di diventare come lui; proprio come i Metallica per gli scapestrati metallari di ogni sottogenere nel decennio successivo.

Ora, se vi parlo di questo libro (scritto da tali Beaujour Tom e Richard Bienstock e già in commercio da qualche anno anche in Italia per le edizioni Il Castello) non è per sdebitarmi della copia omaggio ricevuta, pagata 27 euro ormai mesi fa in un book store milanese. Facevo così anche quando recensivo per i portali: scrivevo di una cosa ogni tanto perché mi andava di farlo, anzi, ringrazio i vari capi redattore che mi hanno dato libertà editoriale, cosa per niente scontata, credetemi.

Dicevo, scrivo di questo libro per motivi ben più personali: sono stato adolescente negli anni ’80 e ho vissuto anch’io l’equazione California = bella vita, lo showtime firmato Los Angeles Lakers (che non c’entrava molto con il metal ma vabbé, suggestioni) e la scena hard rock glam di quegli anni, di cui in Italia arrivavano solo frammenti spinti dalla rotation della defunta Videomusic.

Un concentrato di colori e sogni, euforia e utopia talmente perfetto che non poteva non incastrarsi in quel decennio e rimanere pressoché confinato lì in eterno. Non mancavano talento e professionalità a quei ragazzi ma per la maggior parte di loro lo scopo era “uscire sul Sunset Strip con una confezione da dieci e far girare il mondo”, per dirla con le parole di Rikki Rocket; e intendiamoci, non c’era niente di male in questo perché alla fine si tratta di una generazione fortunata, fatta di ragazzi tremendamente belli e fighi, ispirati e di talento. A differenza loro, i cugini degli anni ’60-’70 vivevano la musica come una missione e questa cosa li avrebbe accompagnato anche nella maturità; non è certo un caso che quasi tutte le band del decennio precedente siano state senz’altro più fortunate in quanto a longevità.

Il conto da pagare per la scena di Los Angeles è stato salatissimo, sia in termini di carriera che di aspettative di vita: gli anni ’90 ( e per molti anche i successivi) sono stati una malinconica discesa nell’abisso dei piccoli club se non addirittura nell’anonimato; ci ha pensato ancora una volta internet, con tutto il revivalismo e i festival di nicchia, a fare della nostalgia un’opportunità e a resuscitare band ormai relegate agli archivi, ma per molti di essi i contraccolpi fisici e psicologici della condizione di outsider sono stati notevoli.

Tracii Guns ammette candidamente di aver passato tutto il 1994 sulla spiaggia di Venice Beach a fumare erba. Tom Keifer ha scoperto un nemico nelle sue corde vocali che ancora oggi non gli danno tregua. Intere band sono andate in pezzi. Jani Lane è morto da solo in un cheap motel di West Hollywood, in piena estate.

L’AIDS ha miracolosamente risparmiato molti di loro perché bianchi ed etero, ma in compenso fra eroina e malattie varie le scomparse premature non si contano. Persino i Guns, che col glam vero e proprio c’entravano poco e riuscirono da subito a brillare di luce propria, avevano l’autodistruzione scritta sul libretto di istruzioni e lo sapevano tutti pur facendo finta di nulla.

Il gioco era troppo bello per lasciarsi sopraffare da pensieri negativi. Dieci anni sull’ottovolante sono un privilegio di pochi, neppure il Flower Power e il Punk, senz’altro più influenti da un punto di vista culturale, hanno avuto la fortuna di durare così a lungo. Quando Ozzy disse a Sharon “tutto questo è follia e durerà per sempre” si sentì rispondere “aspetta il 1990”.

Non era una scena del tutto votata all’autodistruzione ma fra contratti capestro, droghe a pioggia ed edonismo esasperato la cosa non poteva non sfuggire di mano, hai voglia a dare la colpa al grunge. Ripercorrendo l’evoluzione di quella scena con la sensibilità dei tempi moderni, non mi limiterò soltanto a dire che c’era del buono, come si fa in questi casi: le pietre miliari non arrivarono dai protagonisti ma dai loro padri ispiratori, e mi riferisco a band come Journey e Def Leppard che pur avendo fatto cassa in quegli anni non erano identificabili con le parrucche e le orge del Sunset Strip; a West Hollywood sono stati concepiti dischi interessanti e soprattutto canzoni meravigliose, ma niente che abbia avuto un impatto sulle generazioni successive, se escludiamo le nicchie di nostalgici che fanno dischi fotocopia, tipo gli svedesi H.e.a.t. ed Eclipse.

Bon Jovi e Guns n’Roses giocavano un campionato a sé, i primi perché inseriti nel music biz e forti di un progetto già professionale agli inizi, i secondi perché capaci di portare sulla scena un sound di rottura molto più influenzato dal punk e dall’hard blues rispetto a quello che andava per la maggiore.

Nonostante questo, qualcuno aveva intuito che il gioco non sarebbe durato a lungo e aveva provato, diciamo così, a colorare il sound con scelte stilistiche interessanti. I Great White già nell’87 si erano avvicinati alle sonorità hard blues consolidato poi con i bellissimi …Twice Shy e Hooked; un percorso che avrebbe caratterizzato anche i Cinderella a partire dal pluripremiato Long Cold Winter e ancora di più con il successivo Heartbreak Station, in cui vengono lambite persino sonorità country blues.

Altre band come Skid Row e Warrant optarono invece per un percorso opposto, fatto di sonorità dure e anticommerciali, Slave To The Grind e Dog Eat Dog sono grandi dischi riascoltati oggi come allora, anche se in molti facevano finta di nulla. Insomma, una volte finite le scatole di condom alcune band provarono davvero a diventare artisti fatti e finiti. E riascoltati oggi, i dischi citati, stupiscono per la maturità delle loro intuizioni. Aveva ragione Pino Scotto quando diceva che bisogna tornare al blues, la musica più antica dei nostri tempi che per qualche magica ragione rende tutto sempre attuale. E quindi? Cosa andò storto?

Quelle band, o per lo meno certe band erano meno sprovvedute di quello che si potesse0 pensare ma non avevano fatto i conti con il proprio pubblico: quei dischi furono affossati non perché fossero scadenti, non perché erano arrivati gli Alice in Chains con le camicie di flanella a raccontare quanto il mondo fosse brutto e cattivo, semplicemente si erano tutti quanti stufati di loro, e lo fecero capire in maniera tanto repentina quanto fu veloce l’ascesa al successo. Dopotutto è innegabile che buona parte del pubblico, soprattutto quello femminile, che a loro dire era quello che imballava i locali e acquistava i dischi, non era in alcun modo interessato a misurare le pentatoniche di Mark Kendall o la vena cantautorale di Jani Lane.

Erano per lo più innamorate dei loro bei faccini ma poi si sa, passati i trenta cambia tutto, per gli artisti e per i fans, si tirano via i poster dal muro, si fa carriera, si mette su famiglia, semplicemente si cambia e ci si dedica ad altro. Per molti di quei musicisti la musica era solo un modo per arrivare al successo e in questo gli anni ’80 non sono poi così diversi da oggi.

Prima che qualcuno prenda a pretesto quanto appena detto per tirare fuori un presunto sessismo (c’è gente strana là fuori), va ricordato che quelle ragazze cui piaceva divertirsi e spassarsela fra la Cathouse e il Rainbow non erano donne di malaffare, né scapestrate, né vittime di chicchessia: molte di esse erano donne in carriera, emancipate e indipendenti, che nel weekend se la andavano a spassare come preferivano.

Tutto molto California, anni ’80, terra delle opportunità e delle libertà estreme, non ce lo dimentichiamo. Tutto molto white middle class, che peraltro perderà la sua influenza da lì a poco. Alle ragazze in cerca di sogni sedotte e sfruttate da Hollywood verranno dedicati più pezzi, Fallen Angel dei Poison senz’altro la più famosa, ma Angel Song dei Great White vince di gran lunga la palma di ballad del decennio per il sottoscritto. Dicevamo, a seppellire il predominio culturale della borghesia bianca non sarebbe stato il grunge, quello era l’altra faccia della medaglia, bensì l’hip hop, a partire dalla sconvolgente rivolta del ’92 in cui Los Angeles diventò il set per un film di Romero.