English heavy metal band Tokyo Blade on stage, circa 1985. (Photo by Pete Cronin/Redferns/Getty Images)

Tokyo Blade – Una pessima amministrazione

Questa è una di quelle storie che si snodano fra gli anni, con un mucchio di problemi discografici. E voglio farvi comprendere la difficoltà di dar coesione all’articolo con l’aiuto del fumetto: c’è quella vignetta di Verde matematico di Andrea Pazienza in cui Zanardi deve raccontare una storia a Fernando “Artiglio” Pellerano. La cosa riguarda un furto ai danni d’un farmacista, ed è il piglio del protagonista disegnato da APAZ a essere efficace, con lo sforzo per rendere la storia coerente. Come non posso sentirmi così quando scrivo dei Tokyo blade?

Comincia tutto nel 1979 a Salisbury, Inghilterra: un quintetto chiamato White diamond vuole fare Metal ed è innamorato dell’Hard a due chitarre del decennio che si sta concludendo. Nel giro di qualche anno passa dalle cover a brani propri e cambia nome in Killer, nome talmente originale che devono abbandonarlo in fretta.

E’ il 1981: cambiano ancora nome in Genghis Khan, come si chiamava il gruppo precedente del cantante Alan Marsh, ma il chitarrista di questi non gradisce, perciò si passa a Madame guillottine che non si sa perché durò poco.

Nel frattempo quelli che un giorno saranno i Tokyo Blade, hanno già pubblicato due demo e un EP sotto quattro sigle. Il problema del nome li porta alla scelta definitiva, che riflette la fascinazione per l’estremo oriente unita all’apprezzamento di Blade runner.

Giungiamo al 1983: il gruppo ha una formazione affiatata che sta per raggiungere una capacità melodica marcata, quando qualcuno della Powerstation, etichetta in cui sono accasati, combina un casino.

L’esordio viene pubblicato col nome ufficiale in Europa mentre è proposto col titolo Midnight rendezvous in Nord America, con alcune canzoni diverse da una versione all’altra ma la stessa copertina.

Non basta, viene pubblicato un EP lo stesso anno a nome Tokyo blade e s’intitola Midnight rendezvous ma è in realtà quello rilasciato due anni prima a nome Genghis khan.

Se aveste avuto entrambe le copie avreste ascoltato un disastro della produzione: sulla versione nordamericana si possono sentire meglio diverse tracce, quelle curate da Andy Allen e non le altre di Kevin Nixon, titolare dell’etichetta. Perché non lasciare il mix ad Allen che è un vero professionista?

Che Nixon volesse mettersi in mostra, relegando (come fosse un mercato minore) agli USA il ruolo di Allen? L’anno dopo la situazione pare diversa per il gruppo:

il Metal sta esplodendo e la proposta melodica dei Tokyo blade sembra perfetta in questo scenario, col disco che viene mixato meglio. Invece no: s’interessa la Combat alla distribuzione in USA e Canada dopo aver sentito odore di affari per le tracce buone di Midnight rendezvous, ma la Powerhouse impone il cambio di cantante a disco completato.

Vicki James Wright entra e in breve tempo rifà (bene) le parti di Alan Marsh, del quale rimangono però i cori assieme a un altro cantante che non figura fra i crediti perché sparito mentre andava a comprare le sigarette, quando era ospite del gruppo per le sessioni.

Nel 1997 viene ripubblicata una versione con un nuovo master, una marea di belle tracce sono escluse e la (buona) versione con Marsh alla voce sarà pubblicata nel 1998 come The night before.

Nel 1985 la formazione si lancia verso le parti più melodiche dell’Heavy e sfiora il Glam cromato: l’attitudine del nuovo cantante è tale che Blackhearts and jaded spades è il secondo caposaldo del gruppo ed è probabilmente molto opera sua e del suo piglio filo USA, come si vedrà nei suoi Johnny crash.

Purtroppo un’orrenda copertina (degna di Hangin’ the balance) non aiuterà il gruppo a farsi strada in una scena affollata di proposte valide.

Sempre la Powerhouse, senza avvisare i componenti rilascia un EP in due versioni dal diverso numero di brani e intitolato Madame guillottine, uno con la canzone omonima, l’altro no.

Una persona normale interromperebbe questa politica di puntare all’ammasso pensando di fatturare di più come un venditore porta a porta, invece alla Powerhouse la pensano diversamente e fioccano le versioni d’ogni disco con scalette diverse, scelta buona per il collezionismo. Come non bastasse, nel 1986 Alan Marsh formerà un gruppo dal nome troppo vicino come ispirazione, gli Shogun, dove passaranno vari membri del gruppo principale.

Nel viavai di membri, rimane unico componente originario il chitarrista fondatore, il quale definisce il progetto a nome Andy Boulton’s Tokyo blade, che in epoca di guerre civili fra i gruppi si potrebbe fraintendere come una di più formazioni coesistenti.

Nel 1987 esce il confusissimo Ain’t Misbeheavin’…… e i suoi sei punti di sospensione che qualche genio pensava creassero un senso d’attesa: cambio di logo e in copertina Boulton sembra Malmsteen, ma la musica è un Hard incerto e senza mordente.

Passano due anni con un altro cambio di logo e il gruppo tedesco The dead ballerinas diventa spalla di Boulton, perchè entrambi sono sotto la Hot blood.

No remorse esce con due diverse copertine e in alcune parti del globo come Eye of the storm. Il motivo è ignoto. Musicalmente si tratta d’un accattivante Glam class con tastiere e una voce particolare, a metà strada fra UDO e Mark Shelton, ma anche il nuovo stile aiuta a confondere le acque, nonostante sia ottimo.

L’anno dopo Marsh e Boulton si riuniscono e coinvolgendo un paio di membri dei (pensa un po’) Chinatown, pubblicano un superfluo disco di 30 minuti (ma lo chiamano EP) a nome Mr. Ice che verrà ripubblicato con altre canzoni sempre nel 1998 ma a nome Tokyo blade.

Il 1991 li fa scomparire dalle scene e un’altra etichetta tedesca, la lapalissiana Laserlight digital nel 1993 dà alle stampe un disco chiamato Tokyo blade, che dal nome pare un’antologia di brani e che invece contiene tutto Ain’t misbeheavin’ e due canzoni da No remorse (ma ignoro se facessero parte anche di Eye of the storm……)

Dopo anni d’inattività, il gruppo si riforma e rilascia un nuovo disco d’inediti, talmente pieno d’influenze originali da non convincere per l’inadeguato supporto: nel 1995 Burning down paradise è un’occasione sprecata di rilanciare il Metal del decennio precedente come forza motrice del movimento che si sta catacombizzando fra Doom funereo o Stoner, Black e Power melodico.

A quel punto arriva il complicato biennio 1998, nel quale la creatura ibrida Heavy-Funky di Alan Marsh, i Pumphouse, pubblica il discreto disco omonimo con coraggio immane su quel che accade nella scena mondiale; peccato che poi venga intestato ai Tokyo blade. I risultati di vendite sono minimi.

Si scioglie tutto, ognuno va per la sua strada, finchè sull’onda del revival i nostri si riformano e fanno uscire un disco nel 2011 con un cantante non all’altezza dei precedenti. Boulton abbandona la situazione (ufficialmente per motivi di salute) finché ritorna dopo il rientro di Marsh e nel 2018 il risultato di ciò è Unbroken, con la vena melodica intatta, registrato dalla formazione originaria e il logo storico.

I Tokyo blade continuano a pubblicare dischi ma senza i disastri gestionali di quindici anni di carriera. Gli poteva andare meglio in termini remunerativi. Avrebbero avuto la possibilità di lasciare un segno più profondo nella storia della musica Metal, loro che venivano ringraziati dai Metallica degli esordi e che erano mossi da una voglia genuina di imporsi con un proprio stile.

Questa loro attitudine distintiva è dimostrata dagli episodi anni 90, quando osano molto anziché rimaneggiare il passato per il circo della nostalgia.

Resta qualche buon disco (cinque) di cui alcuni sono autentici gioielli, un’abbondanza che molti gruppi di questi anni non possono purtroppo vantare nella  discografia. I Tokyo blade sono un estremo esempio d’inadeguatezza amministrativa, in un’epoca che punisce senza pietà anche band molto meglio gestite di loro.

Intanto, e non come dicono i truzzi: respect!