Pushead: anatomia dolorosa e movimento osseo dinamico

Il pubblico lo sa bene, metabolizza visceralmente nel suo cervello rettile, primitivo e istintivo, facendo proprio questo sentire senza ragionarci troppo: l’identità di una band non è mai stata una questione puramente uditiva. Fin dalle sue origini, il metal ha capito che per marchiare a fuoco l’immaginario collettivo serviva un sigillo visivo, un’estetica capace di tradurre in immagine la potenza dei suoni. Questa consapevolezza ha dato vita a un’araldica moderna complessa e stratificata, un linguaggio fatto di loghi, mascotte e copertine che trascende il semplice marketing per diventare mitologia visuale. E in questo nessuno ha costruito un impero visivo più solido e duraturo degli Iron Maiden. Pushead, questo sconosciuto.

La loro strategia non è stata semplicemente quella di avere un’immagine, ma di creare un universo espanso e personalizzato. La sinergia tra la band e l’artista Derek Riggs è un caso da manuale di total branding: il logo, con la sua tipografia affilata e immediatamente riconoscibile, è rimasto un punto fermo, mentre la mascotte, Eddie the Head, è diventata l’avatar dinamico della loro evoluzione. Ogni copertina non è un’opera a sé stante, ma una tavola di una graphic novel infinita, un’epopea visiva che ha permesso ai fan di “vedere” la musica prima ancora di ascoltarla.

Eddie è la prova vivente di come un’icona possa diventare più grande della band stessa, un simbolo transgenerazionale che garantisce riconoscibilità perpetua. Questa coerenza ferrea, tuttavia, non è la norma, ma una brillante eccezione. La storia del metal è costellata di giganti la cui identità visiva è stata sorprendentemente fluida, a volte quasi volatile.

Si prenda il caso dei padrini del genere, i Black Sabbath. La loro importanza musicale è assoluta, eppure il loro percorso visivo è un labirinto di cambiamenti. Dal carattere gotico e spettrale dell’album di debutto, si è passati a loghi più tondeggianti e psichedelici negli anni ’70, per poi approdare a caratteri più duri e spigolosi nell’era Dio e oltre. Questa continua mutazione, se da un lato rifletteva i cambiamenti di lineup e di sonorità, dall’altro ha impedito la cristallizzazione di un singolo emblema potente come quello degli Iron Maiden.

Lo stesso si può dire per altre band leggendarie: i Judas Priest, pur avendo un simbolo iconico (il “tridente”), hanno spesso variato il loro logotype; i Deep Purple sono definiti più da un sound che da un’immagine unificata. Per queste band, il logo era più una firma apposta su un’opera che il DNA dell’opera stessa, dimostrando che la grandezza musicale può tranquillamente esistere senza un’iconografia monolitica.

In questo scenario, si colloca il caso affascinante dei Metallica; essi hanno optato per un logo-arma, saettante e aggressivo, che è diventato un classico. Tuttavia, hanno sempre rifiutato l’idea di una mascotte fissa, preferendo un approccio tematico per le loro copertine, più concettuale e meno narrativo. Questa scelta li ha resi una tela bianca per artisti selezionati, capaci di catturare l’essenza di un particolare momento creativo. È qui che si inserisce, con la forza di un’incisione su pelle, l’arte di Brian Schroeder, alias Pushead.

Il suo stile, un incubo organico di teschi, putrefazione e dolore viscerale, non era un semplice abbellimento, ma la trasfigurazione perfetta dell’anima più cupa e nichilista dei Metallica, specialmente nel periodo a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90. Le sue creazioni per il merchandise, per i singoli come One o per il design interno di …And Justice for All, non hanno creato un personaggio ricorrente, ma hanno impresso un marchio stilistico indelebile.

Pushead è stato per i Metallica ciò che un regista espressionista è per un film horror: non l’attore protagonista, ma l’architetto delle ombre, colui che ha dato forma visiva all’angoscia. L’analisi del suo lavoro non è quindi solo il ritratto di un grande illustratore, ma una riflessione su un modello alternativo di iconografia metal, dove la potenza di un’immagine non deriva dalla sua ripetizione, ma dall’impatto folgorante e indimenticabile del suo singolo apparire.

C’è un linguaggio visivo che appartiene in modo indissolubile all’heavy metal e all’hardcore. È uno slang fatto di ossa fratturate, carni lacerate e teschi urlanti; una semiotica della decadenza che, anziché respingere, attira e affascina. Nessuno ha saputo codificare questo linguaggio con la stessa brutale eleganza di Brian Schroeder, l’artista noto al mondo come Pushead.

La sua non è semplice illustrazione, ma l’esofago gorgogliante di un suono, la traduzione grafica di un riff distorto, il manifesto di una ribellione che pulsa dal sottosuolo. Il suo sodalizio con i Metallica, in particolare, non ha solo definito l’estetica di una delle più grandi band del pianeta, ma ha elevato il merchandising a forma d’arte, trasformando una semplice t-shirt in un simbolo di appartenenza. Brian Schroeder non emerge da un’accademia d’arte tradizionale.

La sua tela, agli inizi, è il mondo underground della Boise, Idaho, degli anni ’80: un brodo primordiale di cultura skate, fumetti indipendenti e l’etica “do it yourself” del punk/hardcore. La sua vera scuola sono le fanzine fotocopiate, il tape-trading, le grafiche rudimentali serigrafate a mano sui deck da skate. Questo “terrain”, come lui stesso lo definirebbe, non è un limite, ma una fucina. Le costrizioni materiali, inchiostri economici, carta ruvida, il netto contrasto del bianco e nero, diventano le regole del suo stile.

Impara che un’immagine deve “leggere” bene anche in piccolo, essere potente, immediata. Prima che il mondo lo conoscesse come l’artista dei Metallica, Pushead era il frontman e l’esteta del gruppo hardcore Septic Death. Qui, la sua visione prende forma in un connubio inscindibile tra suono e immagine. La musica era violenta, caotica, viscerale, e così doveva essere tutto il resto: i testi, i manifesti dei concerti, il packaging dei dischi.

L’arte non era un accessorio, ma una dimensione parallela all’esperienza sonora, un’estensione della stessa aggressione. In un’intervista rilasciata in quel periodo, emergeva già la sua filosofia: l’arte e la musica come un unico torrente espressivo, una dichiarazione totalizzante. Ma di questo parlerò in un altro articolo dedicato esclusivamente alla band. Il suo primo veicolo di diffusione su larga scala furono gli skate-brand, in particolare Zorlac.

Le sue grafiche per tavole, adesivi e magliette permisero al suo stile di viaggiare oltre la scena punk locale, infettando la cultura skate con la sua macabra ossessione per l’anatomia in decomposizione. “Jeff Newton, l’ideatore di Zorlac, che all’epoca era un’azienda molto underground con sede in Texas, mi chiamò e da li partì un viaggio più strutturato”, raccontava Pushead. Quella telefonata diede il via a una collaborazione decennale che lo consacrò come uno degli artisti di riferimento della scena. Guardare un’opera è come assistere a una dissezione.

Il suo tratto è un bisturi: definito, finissimo nei dettagli anatomici, ma capace di diventare un graffio violento per scavare ombre profonde. Il contrasto è la sua grammatica. Usa neri pieni e chiaroscuri teatrali per dare profondità e dramma a ogni soggetto. La sua non è mai una rappresentazione scientifica del corpo, ma un’anatomia dell’anima tormentata e dolorifica.

Teschi, mandibole, orbite oculari e ossa fratturate sono studiati con una cura quasi maniacale, ma la loro deformazione non è mai gratuita. Serve a raccontare tensione, spasmo, la crudezza della mortalità. C’è una bellezza terribile nella precisione con cui rende le texture della putrefazione: la pelle lacerata, le ossa porose, il sangue rappreso, ottenuti con un lavoro meticoloso di tratteggi, puntinismo e linee incrociate che evocano le antiche tecniche dell’incisione e della xilografia.

Le sue composizioni sono tutto fuorché statiche. I suoi scheletri sono impegnati in una danza macabra perpetua: combattono, si contorcono, si frantumano. C’è sempre un senso di movimento, di crollo imminente, che rende le sue immagini dinamiche e vive, nonostante rappresentino la morte. La sua identità artistica è così radicata in questa estetica che lui stesso, in un’intervista a MTV del 1988, spiegò l’origine del suo nome d’arte.

Sentendosi un “brufolo” (pimple o pus-head in slang) sul volto della società perbenista, un’imperfezione da schiacciare, decise di adottare quel nomignolo come un marchio di fabbrica, una rivendicazione del suo essere “altro”. “Non ero affascinato dalla morte”, chiarì, “ma dai teschi, perché sono la parte interiore di un essere umano. Invece di disegnare persone come tutti gli altri, ho iniziato a creare personaggi-teschio”.

L’ingresso nel “giro che conta” avvenne quando un amico gli presentò Glen Danzig, e che da lì iniziò a fargli disegni “solo per amicizia”, poster, che finirono per essere usati. Questo lo fece “notare” anche dalle band metal più importanti, tra cui i Metallica. Il legame tra Pushead e i Metallica è una delle simbiosi artistiche più iconiche della storia della musica. Tutto inizia dopo l’uscita di Master of Puppets, durante il Damage, Inc. Tour del 1986. La band, già immersa nella scena underground, nota il suo lavoro e decide di coinvolgerlo. L’aneddoto sulla loro prima collaborazione è ormai leggenda. Pushead stesso ha raccontato che i Metallica gli chiesero di realizzare un disegno per l’album Master of Puppets.

Tuttavia, la comunicazione fu a dir poco problematica. Pare che James Hetfield gli abbia fornito un numero di telefono sbagliato per contattare il management. Il risultato? Il disegno non arrivò mai in tempo per la copertina dell’album. Ma da quel quasi-fallimento nacque qualcosa di ancora più potente: il teschio ghignante trafitto da un martello e un pugnale, simbolo del Damage Inc. che divenne una delle grafiche più celebri e amate della band.

“Lavorammo insieme sull’idea”, raccontò Hetfield in un’intervista dell’epoca, “lui faceva uno schizzo, io magari proponevo una piccola modifica. Venne fuori alla grande, era brutale e cazzuto”.

Da quel momento, la collaborazione divenne un fiume in piena: su And Justice For All sebbene non firmi la copertina principale (affidata a Stephen Gorman su concept di Hetfield e Ulrich), Pushead devasta il booklet interno. La sua reinterpretazione di “Lady Justice” è un capolavoro di metafora visiva. La statua è uno scheletro tenuto insieme da corde sfilacciate, un corpo corroso che incarna perfettamente il tema dell’album: una giustizia in pezzi, marcia fino al midollo. L’arte di Pushead non decora, ma commenta, espande, dà forma al concept.

Per l’uscita del video di “One”, Pushead crea un’immagine straziante: un torso umano avvolto in bende, simile a un sarcofago, privato di braccia e gambe. È il riflesso diretto del protagonista della canzone, un soldato la cui identità corporea è stata annientata dalla guerra. L’illustrazione diventa una nota a margine visiva, tanto potente quanto la narrazione sonora, utilizzata anche per il singolo. Poi per la prima volta gli viene affidata l’intera copertina di un album in studio dei Metallica, il controverso St Anger.

E lui non delude. Il pugno chiuso, stretto da un filo spinato che ne lacera la carne, è un’icona di rabbia repressa e dolore esplosivo. I colori, un rosso e arancio aggressivi su sfondo nero, e lo stile senza fronzoli si sposano perfettamente con il suono dell’album: grezzo, abrasivo, privo di assoli e prodotto senza alcun tipo di pulizia. La loro collaborazione ha generato anche oggetti di culto per i collezionisti, come il rarissimo camice chirurgico prodotto in soli 300 esemplari per i membri del MetClub durante il Damage, Inc. Tour, a testimonianza di come il merchandising fosse concepito fin da subito come un’estensione dell’esperienza artistica.

Credo che l’impatto di Pushead va ben oltre le copertine dei dischi. Ha contribuito a forgiare l’identità visiva dei Metallica, rendendola coerente e immediatamente riconoscibile. Le sue grafiche sono diventate icone che vivono di vita propria: il doppio teschio di Sad But True, che suggerisce dualità e conflitto interiore; il cranio trafitto dalle cannucce di The Shortest Straw, metafora di un’oppressione sia fisica che psicologica.

Queste immagini hanno trasformato le t-shirt da semplice abbigliamento a stendardi di un’identità collettiva. Lars Ulrich, in più interviste, ha sottolineato come quelle prime magliette “siano quelle che ancora oggi si distinguono per la loro forza visiva”.

La sua arte, nata per essere stampata su supporti “poveri”, ha dimostrato una straordinaria capacità di adattamento, finendo su deck da skate, scarpe (come le collaborazioni con Vans), giocattoli di design e stampe in edizione limitata, influenzando il modo in cui i fan collezionano l’arte legata alla musica. Pushead ha aperto la strada a un’intera generazione di illustratori underground, insegnando loro a pensare non solo alla “bella illustrazione”, ma a un branding integrato. La sua influenza è palpabile nel lavoro di innumerevoli tatuatori, grafici e artisti della scena skate. Il fatto che i Metallica continuino a riutilizzare le sue grafiche “legacy” dimostra che la sua non è arte usa e getta, ma patrimonio culturale di una band e dei suoi fan.

La sua visione, nata dalla sporcizia delle fanzine e dall’asfalto degli skatepark, ha trovato il suo posto sul palcoscenico più grande del mondo, senza mai perdere la sua anima cruda e la sua macabra, indiscutibile verità. Rispetto a Ed Repka, Dan Seagrave, Derek Riggs o Rick Griffin, Pushead è più incline a disegnare il corpo in decomposizione, all’anatomia horror, all’ossessione dei dettagli interni.

Ed Repka può essere più barocco o organico nei fondali, Riggs più fantasy ed evocativo; Pushead è più “microscopico” nel dettaglio e più “acerbo” nel tratto. Anche rispetto ad altri artisti “di genere” (horror comics, tattoo art), porta l’esperienza della musica, lo skate, la stampa, il merch come parte integrante del processo creativo: non disegna “solo per fare un bel quadro”, ma pensa: come starà sulla t-shirt? come resisterà al lavaggio? come apparirà su vinile, su skate, su poster gigante ?

Questo ne fa un visionario lucidissimo, un artista stimato e venerato da più generazioni, che ha impresso non solo i suo sigillo sui Metallica, ma anche su S.O.D, Misfits, Corrosion Of Conformity, Hirax, Queensryche, Prong tra gli altri. In un mondo in cui l’estetica estrema è stata assorbita e spesso banalizzata dalla cultura mainstream, la sua opera rimane un punto di riferimento per autenticità e carica sovversiva, difficilmente imitabile.