Eccoci, cari equinozi miei. Saranno… tipo, quanto tempo che non vi scrivo…? Un botto di tempo. Mesi e mesi. Non mandatemi a guardare le date. E non è che Sdangher sia rimasto fermo, ho pubblicato un sacco di cose e ne ho scritte almeno il doppio, ma un bel pezzo in cui Padrecavallo vi parla dal suo box di quello che gli ronza intorno alle orecchie, beh…
Perché questo?
Immagino che mi fossi stufato di raccontarvi i fatti miei. E sono sicuro che voi lo foste da molto prima che mi stancassi io. Avete sopportato i miei outing, i miei J’accuse e tutte le ritrattazioni, i programmi di vita nuova (mai rispettati), i vecchi rimorsi e quelli nuovi eccetera eccetera.
Come avete fatto a resistere?
E ora?
Ora ricomincio.
Ho atteso così tanto a scrivervi di me, senza nascondermi dietro un libro, un film, una discografia o il culo di una milfona, che non so più se ora fatico a trovare qualcosa da dirvi perché non mi va di farlo o se è perché sono arrugginito e necessito di una lunga prefazione di riscaldamento.
Non voglio raccontarvi nulla di preciso.
Avrei un sacco di cose, la mia vita sta subendo un altro stravolgimento, ma direi che c’è tempo sia per viverlo fino in fondo e poi magari renderne conto a qualche lettore di buon cuore, avvinto dalle mie bio-scemenze.
Per ora penso che vi aggiornerò su tre cose: famiglia, lavoro e scrittura, sempre che abbiate la voglia di seguirmi.
Eravamo rimasti che le mie bimbe non vivevano più vicino casa mia, ma a quaranta minuti di macchina da me, in un altro comune. Io in base agli accordi di separazione (e il divorzio è un’altra pratica quasi sbrigata) posso vederle ogni fine settimana, finché c’è la scuola. Durante l’estate invece le tengo una settimana sì e una no.
Vi domanderete se è triste, se è dura. Vi mentirei se dicessi di no, ma sarei un ipocrita se non ammettessi che cinque giorni a settimana tutti per me non siano una grandissima pacchia. Certo, amo le mie due figliolette, ma non sto male i giorni che non passano con me. Sì, sono eccitato e gioioso quando vado a prenderle e ho un dolore profondo ogni volta che le riaccompagno a casa. La domenica sera.
La domenica sera è già un momento molto difficile per me, non so voi. Presumo sia dovuto al retaggio scolastico. Non c’era momento più angosciante della domenica sera. Odiavo la scuola e la odio ancora.
Domenica sera, da piccolo ero costretto ad andare a letto presto, subito dopo Occhi di gatto. Mentre cercavo di prendere sonno, la prospettiva di un’altra settimana di scuola mi infiammava il quore. Scrivo quore alla faccia della fottuta scuola. Lo scrivo anche in omaggio a una scritta ribelle che c’era fuori dal cancello delle elementari dove andavo. C’era scritto: Abasso scula! E il tizio aveva ragione, errori compresi.
Dopo le elementari la domenica sera è rimasta triste anche una volta liberatomi della scuola. Le medie, le superiori e l’università ho continuato a soffrire però dopo…?
Non so bene perché ma da adulto, mettermi a letto, che fossero le nove o le due di notte, con l’idea che il giorno dopo avrei iniziato una nuova settimana lavorativa (quando ero impiegato) o che l’avrei trascorsa a bere e scrivere racconti impubblicabili (quando mi licenziarono) mi spingeva una mano invisibile sul cuoricino e lo affogava in un lago di malincomerda.
E ora che sono grande, con un matrimonio fallito alle spalle, varie esperienze lavorative e un conto in sospeso con l’istituzione scolastica, la domenica sera mi trascino a letto, non più tardi delle dieci e trenta, ancora vittima della medesima angosciosa tetraggine, dovuta ormai all’idea di un’altra settimana senza le mie figlie, le quali, povere bimbine, dopo un fine settimana troppo veloce, trascorso col papà a vedere film dell’orrore, fare compiti e litigare tra loro, sono tornate in una casa che io non so neanche come sia dentro, perché non mi ci fanno nemmeno entrare.
Se di notte Ceci si sveglia piangendo, non sono più io a correre a tranquillizzarla. Se Matilde ha una crisi di pianto, devo accontentarmi di farneticarle qualche rassicurazione al telefono.
Gaber e Luperini dicevano che il padre è quello che ci sta insieme e io non sono accanto a loro, mettiamola così. C’è un altro uomo, per fortuna una bravissima persona. Sono felice che ci sia lui. Sempre meglio lui che nessun uomo in quella casa.
Cosa stavo scrivendo?
Ah sì. La domenica sera mi sento di schifo. Ho la lacrima facile, io.
Mi compatisco e mi accuso. Riesco a fare queste due cose anche nello stesso pensiero. “Povero stronzo” mi dico.
Ma parte questo distacco, il resto va bene. Le giornate senza figlie accanto sono votate alla scrittura e alla lettura e altre varie dipendenze e compulsioni. Più il mio lavoro vero, quello con cui mi becco uno stipendio.
Sono ancora netturbino, a un passo dal contratto indeterminato, dopo quasi due anni di prova. Ho fatto di tutto, dal porta a porta allo spazzamento stradale alla gestione dell’ecocentro. In questo periodo sono incaricato di tenere puliti i vicoli del Centro Storico e questa cosa mi inorgoglisce.
Vent’anni fa, se mi avessero detto che mi sarei inorgoglito all’idea di pulire i vicoli sudici del mio paese non ci avrei creduto.
E questo la dice lunga su quanto poco ne sappiamo di noi. Crediamo di conoscerci e proiettiamo la nostra idea di noi avanti negli anni e ci vediamo a tirare avanti magari con un lavoro triste, depressi, stanchi, pensando alla vita schifosa che ci aspetta e invece bam, sono scopino nell’anima.
Eccomi qui, felice, stanco ma ogni mattina terribilmente motivato. Pulisco quei vicoli con un impegno che talvolta nemmeno io riesco a comprendere. Spazzo, scopo tutto, taglio l’erba negli interstizi, trascino secchi pieni d’acqua su e giù per le scale e strofino il guano di piccione fino a farmi venire due braccia così.
Che poi non sono soltanto questi cazzi di piccioni, come direbbe il vecchio Franky.
A completare la ricetta di quello strato catramoso verdognolo e biancolino ci si mettono anche i corvi e le palombelle maledette. Li odio tutti, quei pennuti. Con i loro escrementi e l’attività forsennata su per i tetti, stanno mandando in colera alcuni dei vicoli più trafficati e belli di Vetralla. E tutto ciò che posso fare è scorticare i sampietrini tutte le mattine, per trovarli di nuovo glassati di feci il giorno dopo, negli stessi identici punti.
I piccioni sono animali orribili. Pensate che da quando mi hanno messo i pannelli solari sul tetto, li ho anche là sopra e ogni mattina, alle cinque mi svegliano. Va bene se lavoro, ma la domenica è lo stesso. Tubano. Tubano. Tuuuuubano. Chissà che cazzo avranno da tubare così tanto.
Mi domando ogni giorno cosa intendesse davvero Povia con quella canzone sul piccione. Fino ai bambini fanno oh c’ero arrivato, ma dalla metamorfosi in quello schifo di pennuto proprio non riesco a capirlo. Lasciamo perdere quando volle farsi gay o tutte le battaglie dietrologiche degli ultimi anni. Immagino che ora sia diventato filo-russo.
No, torniamo al cacchio di piccione.
Lui dice:
Più o meno come fa un piccione
Lo so che è brutto il paragone
Però vivrei con l’emozione
Di dare fiducia a chi mi tira il pane
Ma chi vuoi che tiri il pane ai piccioni? Dalle nostre parti gli spariamo con il fucile a piombini.
Più o meno come fa un piccione
L’amore sopra il cornicione
Ti starei vicino nei momenti di crisi
E lontano quando me lo chiedi
I piccioni sono sempre tra i coglioni, che tu lo chieda o no. Perdono le piume e lasciano merda infetta ovunque si posino, pure se col cuore pieno d’amore.
Dimmi che ci credi e che ti fidi
Un giorno avevo il vento
Che mi accompagnava su una tegola
A volte sono solo e mi spavento
Cosa ci fanno due piccioni in una favola?
La tegola te la darei in testa. Di solito cagano, i piccioni, anche nelle favole. Cagano e tubano. Tubano e cagano, diffondono salmonellosi e altre malattie. Voler essere un piccione e poetare sul piccione significa solo che Povia non ha idea di quanto quei cosi siano molesti.
Però non mi fraintendete. Io amo il mio lavoro. Lo amo così tanto che sono quasi grato a quei cazzi di piccioni, di darmi da lavorare. Li adoro quasi quanto i cingalesi che spargono volantini pubblicitari per le strade, gettando in terra quelli che congestionano le cassette postali e infilandone di nuovi, tutte le settimane. A volte anche due volte la settimana, se piove.
Questa è una cosa che non ho mai capito. Se piove loro escono di più, così i volantini tirati via dalle cassette si spargono nelle strade insieme a quelli nuovi infilati di fresco. E si appallottolano sui sampietrini, trasformando in un’ora il mio intero lavoro settimanale in uno schifo.
Ma io li ringrazio, quasi quanto i giovincelli che lasciano sopra e sotto le panchine: le lattine, le confezioni di patatine, i fazzoletti sporchi, convinti che prima o poi, qualcuno, come a casa, magicamente farà sparire quelle porcherie. Non è un problema loro.
Ma cosa volete? Penso che i poliziotti provino un po’ la stessa contorta gratitudine per i nigeriani che gestiscono spaccio e prostituzione o per i romeni che svaligiano le case. Se non ci fossero, bisognerebbe inventarli. Non ci sarebbe lavoro.
Quindi ben venga lo sporco. Così io riesco a trovare un posto in mezzo ai miei simili.
La scrittura?
Difficile per me parlarne, ma vi assicuro che se non lavoro, se non dormo e se non mi masturbo, io scrivo.
Scrivere per me è uno strumento indispensabile alla comprensione, alla metabolizzazione del reale e blah blah blah. Scrivo finché sono vivo in questo mondo difficile, così pieno di santi e merdafondai, che se non ci fossero bisognerebbe inventarli, come i piccioni e gli adolescenti sporcaccioni.
Buona domenica sera.