In questo blog siamo cavalli, quindi facciamo le cose in modo diverso dagli altri animali. Equinalmente sono stanco di fingermi esperto di tutto quello di cui scrivo. Ci sono nomi piccoli e grandi, interi sottogeneri di cui non so quasi una ceppa. Potrei fingermi competente e parlare con simulata autorevolezza di Mark Lanegan e la sua carriera solista, ma non sono uno di Ondarock, il cantautorato rock, inteso come genere, mi ha sempre fatto venire lo sconforto. Ci sono alcuni album che amo. Per esempio quello di Jackson Frank, molta roba del primo Cat Stevens e Grace di Jeff Buckley. Ma Bob Dylan non l’ho mai sopportato. Sono un grande estimatore di alcuni cantautori italiani, da Gaber a Jannacci, Dalla, De André e Fabio Concato, ma di solito un disco dove il testo è più importante della musica, non mi tira molto.
Mark Lanegan è un grande poeta del rock. Molti lo rimpiangono, credo sia morto un paio d’anni fa. Ha avuto per anni grossi problemi di droga e per qualcuno, parecchie delle sue canzoni tratte da Whiskey for the Holy Ghost, secondo e travagliatissimo album solista, parlano proprio del suo rapporto con l’eroina. Per la verità, lui dichiarò come fonte d’ispirazione solo il libro di Cormac McCharty, Meridiano di sangue.
Che non ho letto. Pensate che lo comprai molti anni fa, lo tenni in casa a prendere polvere per decenni e alla fine lo regalai a un grande amico, il quale lo lesse e ne rimase folgorato, poco prima di morire. Non credo sia stato il libro a ucciderlo. Prima o poi lo acquisterò ancora, ma non andrò dai parenti del dottor Carlo a reclamare quella copia. Qualcosa però mi dice che Whiskey… non sia un concept basato sul romanzo di McCharty e che non racconti niente di narrativo, consequenziale. Trovo sia più una risonanza di quel libro. Da lì parte e poi non si sa bene dove arrivi.
Probabilmente, mentre Lanegan leggeva le pagine del più sanguinoso e crudele romanzo western che sia mai stato concepito da un autore pubblicato da Einaudi, qualcosa dentro di lui, di tanto in tanto, reagiva a una riga, una scena, e così Mark, prendendo il bloc-notes dalla tasca e la penna da dietro l’orecchio, iniziava a buttar giù un testo, dove chissà cosa voleva dire non lo sapeva neanche lui. Ma se ve ne intendete un po’ di poesia, saprete che i poeti non ne fanno un grande problema se loro stessi non sanno bene cosa cacchio stiano scrivendo. Sarà il lettore a deciderlo. E in questo caso, l’ascoltatore.
Il disco, Wiskey For The Holy Ghost, è considerato dagli estimatori di Lanegan come uno dei suoi migliori, ma personalmente non l’ho trovato così impressionante. Ha tutta una storia sulla sua epopea creativa. Dopo aver pubblicato un primo album da solo senza pensarci troppo, questo secondo divenne una palude di ripensamenti, paranoie e re-incisioni. Pare che un giorno Jack Endino impedì finiscamente a Lanegan di buttare nel fiume i master dell’album, per quanto non ci stesse capendo più un cazzo sul valore effettivo di ciò che aveva fatto.
Mi ha sorpreso di scovarlo tra le recensioni di Metal Shock. Insomma, come poteva finire un appassionato di Cannibal Corpse e Sinister o di Running Wild e Rage, ad ascoltare un giovane virgulto di Seattle, sentirlo miagolare su una base folk strascicata, inneggiare a Gesù che non viene più e di donne con gli occhi morti che te la danno senza neanche vederti, ma solo perché sei famoso, beh, queste sono le classiche connessioni che si creano tra settori di mercato contingenti.
E in effetti so di molti appassionati di metal che stimano parecchio Lanegan, non solo per essere stato il frontman e principale autore degli Screemin’ Trees, ma anche per le cose fatte durante e dopo lo scioglimento della band, per conto proprio. Mi spiace non essere tra loro.
Capisco che sia uno in gamba, nella sua voce c’è qualcosa di puro, nonostante la sporcizia muco-nasistenziale dovuta al troppo alcol, le troppe sigarette, le scarse ore di sonno e soprattutto le pere, e i suoi brani sembrano seguire una traccia che nessuno avrebbe mai potuto vedere al posto suo, costatagli dolore, tafferuglio interiore, idee suicide, disperazione pura, ma se devo dire che ho provato qualche emozione pure io, mentre Lanegan piange di se stesso ma senza troppo piacere, in Borracho o quando si impastoia in sogni lirici a occhi aperti, di un deserto d’acqua e di fantasmi prigionieri nella bottiglia (Kingdom Of Rain, Riding The Nightingale) sarei un bugiardo. E continuo a sostenerlo: non è questione di genere. Non è il fottuto genere che non mi piace. Se amassi un genere di per sé, sarei un critico poco attendibile.
Chi ama il genere è pronto a perdonare un sacco di cose alle band che ne fanno parte e lo praticano stando bene attente a non mettere mai fuori il naso da quella zona di confort creativa. Io sono convinto che i grandi riescano invece a trascendere il genere e arrivino al cuore di moltissime persone perché sono grandi e basta. Forse Mark Lanegan ha scritto grandi canzoni nei suoi lavori successivi, ma non mi sembra che qui ce ne siano. O almeno non le ha scritte per uno come me, quindi lo saluto e gli auguro ogni bene, ovunque si trovi ora.