Gli Honcho Overload sono una specie di progetto parallelo degli Hum. Grazie tante, direte. Ma chi sono gli Hum? Beh, gli Hum, a quanto pare, sono una rock band alternative americana che ha avuto una certa fama durante gli anni crepuscolari del grunge, quindi tra il 93 e il 96. Credo di capire che gli Honcho non avessero tutto questo riscontro, anche perché avevano un nome davvero orribile. Ma grazie alla presenza di Matt Talbott e Jim Dimpsey, entrambi membri dei piuttosto noti Hum, qualcuno badò pure a loro e si comprò Smiles Everyone, il primo album del 1993, uscito nello stesso anno del successone Electra 2000 degli strasuddetti Hum. L’anno successivo, il 1994, gli Honcho Overload ne partorirono un altro di disco, Pour Another Drink, ma rispetto all’esordio, secondo me è un po’ sotto.
Gli Honcho Overload avevano una dote poco diffusa nel rock, l’ironia. Insieme al nome fu la causa della loro disfatta. Non hanno potuto granché le canzoni.
Le canzoni sono la sola grande ricchezza di un album. Nel tempo possono farlo risorgere e salvare l’anima di qualcuno, in ogni istante. Peccato che al momento dell’uscita non possono nulla contro la scarsa efficacia dell’immagine di una band, del suo essere nella tendenza e di tutta un’altra serie di stronzate che a distanza di anni smettono di contare ma che nel presente continuano a vincere sulle idee, sull’ispirazione vera, sulla poesia.
La sola cosa che mi interessa davvero sono e saranno sempre quelle, le canzoni. Cosa intendo? Buoni ritornelli, di quelli che ti ritrovi a canticchiare mentre cerchi di non strozzare il cane del vicino; qualche riff coinvolgente che non debba nulla agli AC/DC o agli Stones; l’energia vera di chi ha il pepe al culo e ne ha anche per uno sfiatato come me.
Se devo dirvi a chi somigliano gli Honcho Overload di Smiles Everyone, potrei citarvi diverse band ma sarebbe un elenco non mio. Ho raccolto una serie di nomi che identificano, secondo altri intenditori, la ricetta del sound da cui parte questo gruppo, ma non ne conosco davvero nessuno. Sì, certi nomi mi dicono, per esempio so chi siano i Jesus Lizard, ma è chiaro, anche ascoltandoli, che gli Honcho provengono da una vertebra adamitica del rock che non mi appartiene. Il solo gruppo che potrei citare tirando il cappello dove non arrivo, sono gli Hüsker Dü.
Gli Hüsker Dü sono uno di quei gruppi indie seminali di assoluta importanza per gli anni 90. Li ho sentiti, ho letto di loro, ho tentato di colmare una delle mie tante lacune, ma se c’è una cosa che so, riguardo il recupero dei classici, è che se te li ascolti dopo l’età giusta, appena hai smesso, comunque non ti resta quasi niente dentro. Appena hai cessato di sentirli, nonostante l’ammirazione, la comprensione totale della loro peculiarità e importanza, mi scivolano via dalla memoria come le lezioni di economia politica nel biennio.
Purtroppo è così. Tutto ciò che mi arriva all’orecchio oltre una certa età, non rimane. Quello che resta dentro e che potrei citarvi anche da ubriaco, tutte le canzoni che potrei indovinare dopo aver sentito le prime due note d’attacco, sono quello che sono. Magari era meglio aver digerito gli Yes rispetto ai Dokken, ma dei primi continuo a non trattenere nulla, nonostante gli sforzi di recupero, mentre dei secondi so anche il tipo di corde che usava George Lynch negli anni 80. Scalatura e tutto. E’ che io a quindici anni, avevo bisogno di sentire loro per stare meglio, non il progressive inglese.
Nonostante questo mi aggiro negli archivi e setaccio in cerca di grandi album, sempre. Per me Smiles Everyone lo è. Non manifesta ancora del tutto il grange virus, come avverrà con Pour Some Drink, ha più un’attitudine pop-punk diretta e almeno tre pezzi irresistibili, che per me sono l’ossatura di ogni disco degno di essere ricordato. Tre punti nodali, tre picchi a cui appendere il resto della solfa.
Vi dico quali sono. Il primo è Homunculus, un mezzo-sbattone tipico anni 90, da scapocciare tra un sorso e l’altro della vostra coca-cola analculica. Poi c’è Gershwin che, come ha scritto qualcuno in rete, pare un bimbo che gli Smashing Pumpkins e gli Hum hanno avuto dopo una notte di bisboccia.
Ma la più fica di tutte è la conclusiva Miserable. Ha un lirismo degno delle grandi saghe rock. Ha un’andatura dinoccolata da finale di film, dopo la fregatura, dopo la delusione, prima della depressione. Sapete, quando c’è quel momento in cui lui guarda il cielo e trattiene il fiato, come preso da una sensazione di grande intensità. Tutto fa schifo ma è così che va. Certe volte ci dice male, però tocca a tutti quelli che hanno provato a viversela, la cazzo di vita. Il ritornello esplode come una nenia degli Stones. Su le mani, accendini accesi, l’eroe se ne va verso il tramonto. Quando si volterà, mi raccomando, spegneteli e lasciatelo al buio della sua nuova rinascita. Adieu.
Finché ci saranno canzoni così belle nascoste in vecchi dischi di merda dimenticati da dio, varrà la pena continuare a cercare. Sentite qui.