Nonostante il loro capolavoro, Change, uscito nel 1996 e dimenticato da tutti, sia stato rimasterizzato e riproposto sul mercato qualche anno fa; nonostante l’uscita nel 2022 di un EP di venti minuti; nonostante questa band, The Quest, sia stata acclamata dalla critica a ogni uscita, in rete non se li fila ancora nessuno. Troverete solo una schedina su progarchives.com di tre paragrafetti, fornita dalla band stessa, come viene specificato in coda alla pagina del sito. Vero, la discografia è abbastanza misera: due album e mezzo in più di 30 anni; ma stiamo parlando di un gruppo eccellente che alla metà degli anni 90 meritava una buona puntata.
Probabilmente il mercato del progressive metal, al tempo era piuttosto agguerrito. Qualcuno sostiene che al tempo le riviste fecero di tutto per eclissarlo ma io ricordo in Italia una discreta attenzione da parte di Metal Shock, prima che il power riesplodesse con Stratovarius e Hammerfall e si prendesse i neuroni di molti redattori.
Inoltre i The Quest appartenevano al filone prog per modo di dire. Lo erano sul versante dei Kansas, troppo AOR per ricordare i vari Yes o Rush. Certo, nel primo album, Do You Believe, uscito nei primi anni 90, per l’allora piccola ma promettente etichetta Now & Them, ricordava pure il trio canadese in alcuni momento (River Of Decrets) ma la componente più importante della loro proposta non erano tanto le strutture ritmiche, ma le melodie, le armonie e certe soluzioni stranianti, soprattutto negli accompagnamenti sotto al cantato, che davano un’idea senz’altro sperimentale e di audace progressivismo, ma non in linea con le tendenze definite da Fates Warning o Queensryche. Questo nello specifico dell’esordio.
Quando invece uscì Canghe, l’influenza dei Dream Theater è innegabile, ma non predominante. Il gruppo aveva sentito e subìto Awake, ma non permetteva alla propria manovra di contaminarlo fino a trasformarsi in uno dei tanti sosia del prototipo americano. Il progressive dei The Quest, in questo secondo album è davvero più evidente che nel primo album, molto intenso, trascinante: soprattutto nei brani più lunghi, dove in alcuni punti non si riesce a prevedere cosa possa capitare.
Mi riferisco in particolare a Stand e Do You Believe, pezzoni intervallati da brani più corti che però sfociano uno dopo l’altro, come preludi a questi due momenti centrali più corposi. Qui c’è sì lo sfoggio di tecnica da riccardoni, c’è senza dubbio una combinazione di suoni forse un po’ troppo “di moda” (penso al Sax in un paio di momenti; ai riffoni stoppati tra Petrucci e Romeo del cristallino Chris Dorman; a certe ondate tastieristiche incalzanti che fanno un po’ il verso a Metropolis pt. II (ma Graham Woodcock è irrefrenabile e di cose interessanti ne propina di continuo) e tutto questo, sia chiaro, è il superfluo; le canzoni ci avvolgono e ci conducono in posto dove non siamo mai stati e in cui poi vogliamo tornare, ancora e ancora.
Produzione leccorniosa che non è invecchiata per niente. Musicisti di altissimo livello; sarà scontato dirlo per un gruppo prog ma io ci tengo a specificarlo: questi sanno suonare da dio. Steve Murray è un cantante straordinario. Forse non sarà stato il disco prog dell’anno, come propose di nominarlo qualche rivista nel ’96 (una certa Frontiers) ma Canghe mandò fuori di testa Barney Greenway e diversi altri “intenditori vip”. Per quello che vale, ha nutrito il mio oceano interiore di nuovi pesci meravigliosi. Anche nei momenti “formato canzone” (Inner Room, Turn Away), i The Quest io li trovo davvero esaltanti.
Chiedo scusa a Steve Murray per l’errore. Credevo che il vocalist dell’album Change fosse il suo predecessore David Shaun Owens, ma è lui. Entrò nella band nel 1994 ed è ancora lui in The Book Of Caleb. E di lui penso tutto il bene che ho scritto e anche di più. Mi scuso con Steve e con la band per questa toppata grossolana. Ho corretto il nome in corpo all’articolo. Di più non posso fare e mi dispiace.