SOLOTHUS – I SOGNI FETIDI

I Solothus sono finlandesi, suonano insieme dal 2007 e fanno death-doom metal. Allora, prima di proseguire chiariamo bene queste tre informazioni che vi ho dato. Essere finlandesi non è una cosa tanto per essere di qualche nazionalità. Chi viene da quelle parti apprende certe sfaccettature su concetti come l’inverno, le tenebre divoranti, lo spazio come desolazione sconfinata e il suicidio come via d’uscita. Tutti noi ci esprimiamo usando più o meno le stesse parole, ma è chiaro che se io dico “doom” e sono cresciuto a Miami o a Cacate Sul Breccio, non dico la stessa cosa. Ma la musica ci aiuta a comunicare oltre le chiacchiere, di conseguenza è vitale per gente come i Solothus arrivare ai nostri cuori usando quella miscela di death rallentato e molto “animico” e non vivere isolati nelle sacche di quella tenebra e quella disperazione fino al giorno del “basta così”.
La terza informazione che vi ho dato è che si sono formati nel 2007, ma è tanto per segnare una data. La band al tempo cazzeggiava e basta e di quella line-up è rimasta solo una delle due menti creative, quella del growler Kari Kankaanpää. L’altro membro più anziano è il chitarrista Veli-Matti Karjalainen.
“Vero” dice Kari “per lo più all’inizio andavamo alle prove ma invece di suonare bevevamo. Nei giorni più produttivi facevamo qualche cover ma veniva uno schifo. Il problema principale era che io e Santeri (Santapukki, il primo batterista, ndr) non eravamo affatto dei geni musicali, di conseguenza non creavamo nulla. A me è sempre piaciuto scrivere testi, ma musicalmente sono piuttosto una frana. Quando nel 2010 è entrato in scena Veli-Matti, le cose sono cambiate radicalmente. All’inizio avemmo difficoltà a organizzare le prove, dato che lui abitava lontano. Poi però si trasferì dalle parti nostre e da quel momento facemmo grandi progressi. Soprattutto però lui aveva ciò che a noi era sempre mancato: una visione così forte di ciò che voleva fare creativamente. Tutti i riff, la musica, gli uscivano fuori in modo naturale dalle mani, come se niente fosse. Noi eravamo lì a occhi spalancati e lui snocciolava tutte quelle idee. Ci limitammo a imparare le sue canzoni e dopo alcuni mesi avevamo materiale per un demo. Le cose non è che siano cambiate molto da allora”.

Quindi Veli-Matti Karjalainen è creatore unico di tutte le musiche e Kari Kankaanpää è autore dei testi e interprete delle linee vocali; se così vogliamo chiamare i rigurgiti da Sandro Curzi alle cinque di mattina dopo anni che è morto, che lui emette tra un riff e un fraseggio.
Il demo è pubblicato in tiratura da cento copie con il titolo Ritual Of The Horned Skull.

“Penso che la nostra idea iniziale dietro la registrazione” ricorda Kari, “fosse solo quella di realizzare un buon biglietto da visita per convincere qualche locale a farci suonare dal vivo; cosa che non c’era mai capitata prima. Ovviamente anche noi volevamo trovare un’etichetta, ma al tempo non era la nostra priorità. Impiegammo due anni per arrivare a incidere un disco vero, sia perché avevamo ancora parecchia strada da fare come gruppo, sia per lo split con i Cataleptic. L’etichetta decise di chiudere poco prima di pubblicarci. Quindi lo split è stato inciso ma non è mai uscito. Dopo un po’ abbiamo ricominciato a perdere i pezzi e ci siamo dati parecchio da fare a risistemare la formazione, prima di realizzare l’album”.

“Summoned From The Void” esce per Memento Mori, nel 2013. Non è un disco irrinunciabile, considerando i livelli qualitativi raggiunti poi dal gruppo con i due album successivi, ma già allora nell’underground, i Solothus iniziavano a interessare l’underground. E il nome, che fa pensare a un lenitivo per la tosse che però protegge la mucosa, ma sin da subito cattura l’attenzione.

Il gruppo non è molto chiaro sul significato. Kari all’inizio spiega che è un riferimento a Pekka Jallu Solothus, famoso assassino nazionale di cui in rete non si trova nulla, poi invece cambia versione dicendo che si tratta di una creatura dell’antico folklore finlandese, portatrice di malattia durante le notti invernali più buie. Poi a un certo punto rivela che non significa nulla e che per quanto ne sa, forse Solothus è davvero un lenitivo per la tosse che protegge la mucosa.

Insomma, davvero non significa nulla?

Ni. Se ascoltate la musica e vi girate in testa il loro nome, avvertite una connessione tra il senso di solitudine che emerge ogni volta che Veli-Matti si arrampica su per la scala melodica e Kari grugnisce di posti e menti piene di vermi e ragnatele. E quella parola onomatopeicamente isolana, è perfetta sul piano acustico-gnomico (nel senso del significato e non del piccolo popolo).

Solothus. Pronunciate questo strano termine e chiudete gli occhi. Sarete improvvisamente soli mentre i bronchi sanguinano e il sangue schizza sulla neve a ogni colpo di tosse “cavernale”.

Kari Kankaanpää, hai da accendere?

Tornando al primo disco, Kari ne conviene: “Oggi non suona granché, ma al tempo ricevemmo una discreta quantità di feedback e ci ha procurato dei bei concerti! Dopo l’uscita abbiamo suonato in un piccolo tour nel Regno Unito, quindi è stato sicuramente il vero inizio per noi. Poi abbiamo firmato un contratto con la Doomentia Records, cosa che ci ha reso orgogliosi”

Inoltre, va detto che il concept epic-death & doom del gruppo sia già definito nel primo album, così come il suono terreo e massiccio.
Sempre Kari riguardo il tema ricorrente del gruppo: “Mi sono innamorato per la prima volta dell’heavy metal quando ho trovato il legame con la letteratura e la musica fantasy. Sono un avido lettore di tutti i tipi di letteratura fantasy; che si tratti di Conan di Howard o di Forgotten Realms di Salvatore. All’inizio i testi dei Solothus erano roba cruenta ma nella media. Io e Veli-Matti abbiamo avuto una conversazione su cosa ci ha portato ad amare questo tipo di musica e il metal in generale, quindi alla fine ho deciso di scrivere i miei testi in un modo più “fantasy” o da “sword and sorcery”, parafrasando Fritz Leiber. Penso che abbia funzionato molto bene con noi, almeno agli altri ragazzi della band piace”.

Forse “Summoned…” è più estremo rispetto al proseguo, ma in fondo la band ha già inquadrato la propria dimensione. La musica è densa come melma sanguinolenta che cola lungo lame gigantiache.

“Qualcuno una volta ha detto” dice Kari, “che i Solothus sono ciò che i Manilla Road sarebbero se suonassero death metal. Forse non è così, io penso più a un incrocio tra Bolt Thrower e Candlemass, ma lo prendo comunque come un enorme complimento”.

Il secondo album, “No Kings Reigns Eternal” è decisamente un doppio passo avanti verso uno sprofondo di dolore, notti nemiche e incantesimi pestiferi.
“Sicuramente è stato un passo nella giusta direzione” ammette Kari, “la musica è molto più matura e si è evoluta naturalmente. Per il nostro debutto, le canzoni sono state scritte in un tempo più lungo. Il materiale di “No King Reigns Eternal” è venuto fuori in pochi mesi, il che, secondo me, lo rende un lavoro più completo”.

Oltre questo va segnalato l’inizio della collaborazione tra il gruppo e Harri Hyytiäinen (noto nel giro underground anche come Witch King). Si è occupato lui delle registrazioni e la supervisione dei brani. “Harri è il compagno di band del nostro batterista Juha nei Cataleptic, quindi è stata una decisione facile e fruttuosa lavorare con lui. Sapeva cosa volevamo e sapeva come realizzarlo”.

E cosa volevate realizzare?

“Una fusione equa tra death e doom metal. Più che dalle vecchie band finlandesi, l’influenza death metal proviene dagli Autopsy, mentre l’aspetto doom è da ricondurre ai Reverend Bizarre, i Cathedral e così via”.

Ridurre tutto a un ibrido tra death e doom è abbastanza sminuente però: già dentro “No Kings…” sono evidenti alcune ridondanze black e una malìa esistenziale tipica del goth inglese; elemento emerso probabilmente a causa del periodo angoscioso e complicato vissuto dal gruppo durante la lavorazione del secondo album.

Sia “The Betrayer” che la title-track rappresentano il grande manifesto “epico-scuro” dei Solothus. Potete immaginare giganteschi guerrieri insonnoliti nella soffocante e venefica aria di palude, che attendono l’arrivo dall’oltretomba di qualche sciagura vendicativa. Le ombre tra gli alberi olezzano di carogna e quando ci si mettono di mezzo gli spiriti, puoi essere grosso e armato quanto vuoi: non hai speranza di cavartela.

Ma è dopo averci fatto assaggiare il grosso martello fatale sulle ginocchia, che l’atmosfera pregna di violenza si dirada lasciandoci moribondi sotto un cielo nero e crudele. Esso a gran voce intima nuovi sacrifici da tributare a dei antichissimi e assolutamente poco magnanimi.

E se non ci sono dei, gli uomini sono i soli dei di questo pianeta brullo. La figura dell’eroe dei Solothus è come quello dei Manowar ma dopo che una peste demoniaca gli ha necrotizzato il cuore. C’è solo odio nella più pura essenza dietro gli occhi stretti e disumani di questo essere. (Solo la rabbia primordiale riempie quest’uomo vuoto/Un santuario costruito di tormento e ossa/Questa oscurità che non puoi definire… – da “Malignant Caress”).

E intorno a lui la terra esprime risultati coerenti con tanta umana perdizione. (Nessuna luce sorge/Sui campi aridi/Oh così silenziosamente/La morte cammina in mezzo a noi…) e sulle carcasse abbandonate di bastardi violentatori e padri assassini, il vento della desolazione soffia tra i fori nella carne sghembe litanie.

Se “Kings…” non offre speranza, il successivo “Realm Of Ash And Blood” qualche bagliore all’orizzonte lo suggerisce, ma bisogna attraversare forse un territorio ancora più vorace e cattivo prima di abbeverare lo spirito sfiatato a quelle flebili sorgenti di salvezza.

“Con il nostro secondo album” dice Kari, “mi trovavo in un luogo davvero tetro, quindi i testi riflettevano fortemente su questo. Con “Realm Of Ash And Blood” sono stato liberato da tale angoscia emotiva e ho potuto seguire di più gli aspetti lirici che mi stavano fermentando nella mente da un po’: la rovina, la perdita, l’amarezza, la vita e la morte. Penso che le vite private siano un ottimo carburante per alimentare gli impulsi creativi e spesso rifletterle sulla musica che facciamo”.

Le tematiche sono sempre meno fantasy. Il padre della malattia (“Father Of Sickness”) di cui si parla nel brano omonimo fa pensare più a un vermifero dio del dolore che caracolla incerto e timido da un pertugio nel muro dentro la stanza di un ammalato, il quale si dona a esso (Il mio fragile corpo si sgretola/Mi arrendo al signore dei vermi) senza pensare ad alcun altro essere superiore tra le nubi.

Ci sono ancora i guerrieri sub-umani come “The Watcher”, sorta di rilettura doom dei vendicatori alla Judas Priest (Una spada per trafiggere l’oscurità/Decapitare il vile serpente) e gli scenari lovecraftiani di “Below Black Water” (Annego nelle acque più nere/L’odio primordiale nelle profondità/Sonnecchiando sogni fetidi) ma sempre più gli scorci dark fantasy offrono slarghi melodici toccanti e liriche poetico-mistiche. Su tutto ci redime la strumentale “Last Breath”, posta a metà della scaletta, come trapasso ideale dalla furia e le pietre del purgatorio alla dolente liberazione del cielo.