Non vi è alcun dubbio che sul finire degli anni ‘70 e nei primi anni ‘80 la Svezia abbia vissuto un momento creativo sbalorditivo. Rispetto ad altre nazioni però, specie quelle anglofone, il decentramento geografico e la carente diffusione discografica fuori dai propri confini, spesso ne ha frenato l’affermazione a più ampio spettro. Universe, Overdrive, Torch, 220 Volt, Axewithch, Gotham City, tra gli altri e i precursori dell’epic metal vichingo, gli Heavy Load, potevano e dovevano raccogliere molto più di quello che effettivamente hanno seminato in quel periodo. Ma escludendo queste congetture, non può non spiccare il rammarico per la mancata esplosione di una band che tanto ha precorso, innovato, sperimentato, quando ancora si era agli albori del genere. Si tratta dei Silver Mountain, che di fatto, insieme a Yngwie Malmsteen hanno letteralmente definito quel suono che oggi viene chiamato “Neoclassico”.
Sia Malmsteen che Jonas Hansson, chitarrista e mastermind dei Silver Mountain, hanno iniziato a suonare in quel modo specifico allo stesso tempo, prima del 1980, ma il raccolto del loro seminato è stato molto differente. Sia lui che Malmsteen attingono l’ispirazione dalle stesse fonti: Jimi Hendrix, Ritchie Blackmore e Uli Jon Roth, ma Hansoon aggiunge anche altri eroi, come Gary Moore, Jimmy Page e John Maclaughlin, ampliando virtualmente lo spettro sonoro di rifireimento.
Appena adolescente milita nei Zaturnus, a Malmö, dove si fa le ossa. Successivamente si lascia ammaliare dai Rainbow e partendo da quel modello, sviluppa una propria visione. Conosce a un party selvaggio un proprietario di studio di registrazione, il Eutone HB Studio. I due si accordano per registrare un singolo in 1000 copie ne nel 1979 sancisce la nascita del “neoclassico” nell’heavy metal.
Intitolato “Man of No Present Existence / Axeman And The Virgin”, già in questi pezzi si avverte un tentativo, a tratti riuscito, di indurire un suono già proposto dai Rainbow, che di musica classica ne utilizzavano a piene mani, ma aggiungendo più durezza e velocità. Un anello di congiunzione tra hard rock e heavy metal, però già sbilanciato verso il secondo, anche a partire dall’immagine di copertina.
Caratteri gotici, bianco e nero, facce trucide, suggestioni testuali stentoree, la metamorfosi è quasi completa. Yngwie debutterà ufficialmente, tolti i demo tapes, nel 1983 con gli Steeler di Ron Keel, ma suonando un metal più canonico, scevro da qualsivoglia esibizione neoclassica, che si concretizzerà lo stesso anno con il primo Alcatrazz, “No Parole From Rock’n’Roll”.
Nel 1980 i Silver Mountain producono una cassetta di dodici pezzi, che si sgancia definitivamente dall’hard rock, per entrare a pieno titolo nell’heavy metal. Dentro c’è tutto: riff massicci, scale minori, barocchismi e virtuosismi, ritornelli melodici, pezzi strumentali che fondono gusto e tecnica. Formalmente è l’alba di una nuova era; di un sottogenere definitivamente perfezionato.
Ma… Con i se e con i ma non si fa la storia, però immaginando una produzione decente, in uno studio professionale, un artwork curato e una diffusione capillare, forse oggi non staremmo a parlare di “Rising Force” (1984) come ottava meraviglia del mondo musicale, e celebreremmo i Silver Mountain. Quattro anni di differenza, che a inizio decade sono tantissimi in termini di cambiamenti ed evoluzioni per il metal tutto. In quel breve lasso di tempo avviene il rapido susseguirsi di tante nuove ramificazioni e derivazioni, quando ancora si poteva spaziare, visto che c’era grandissimo spazio di manovra.
No, in quel periodo nulla cambia per i Silver Mountain; la band sopravvive, suonicchia in giro, continua a comporre e spera di incidere un disco completo. In tre anni Hansson, pur con il pieno controllo creativo e compositivo, a differenza di Yngwie, non considera i musicisti attorno a sé come comparse per supportare il proprio ego, e con loro continua a progredire alla ricerca di una solida coesione.
Si continua per alcuni anni con una formazione a quattro, Ingemar Stenquist al basso, Mårten Hedener alla batteria, Morgan Alm alla seconda chitarra e Jonas Hansson voce e chitarra solista. La presenza di due chitarre sottolinea come non si vuole incentrare tutto sulla figura di un “guitar hero”, ma pur esaltando la tecnica e il gusto di Hansson, tutto è studiato per essere una vera band, unita e soprattutto che guarda insieme in avanti.
Ma l’insoddisfazione di restare a stagnare nel sottobosco di Malmö, città natale dei Silver Mountain, mentre altri, meno bravi e originali, ottengono più di quello sperato, induce alcuni componenti a mollare il colpo. Nel 1982 Hansson, su imbeccata di un amico, Hansson conosce il batterista Anders Johansson, che però inizialmente risulta troppo legato alla scuola jazz, e gli abboccamenti sembrano non portare a nulla.
Un giorno sfonda quasi la porta della sala prove, si siede ai tamburi, e inizia a suonare furiosamente su una parte a doppia chitarra armonizzata. Hansson rimane sbalordito e lo ingaggia all’istante. Siccome i Silver Mountain vorrebbero accellerare sull’aspetto neoclassico, necessitano di un tastierista, che “colori” meglio i nuovi pezzi.
Anders suggerisce suo fratello Jens, e l’affare è subito fatto. Sempre per un giro di amicizia, nel 1983 la band si reca allo studio Ljudspåret a Göteborg, e in un week end registra quello che diventa “Shakin’ Brains”. Il lavoro fatto è magnifico, Jens Johansson rifinisce le parti orchestrali e sinfoniche degli arrangiamenti, arricchendo il lavoro più heavy di Hansson.
E stiamo parlando del 1983. La Roadrunner mette gli occhi sul disco, e compra il master per stamparlo. La label crede di vedere lungo, forse coglie l’analogia con il lavoro di Malmsteen e spera che i Silver Mountain possano essere come lui. Stesso genere, stessa nazione, stesso periodo. Tutto dovrebbe tornare no?
No.
Nonostante una formazione stellare, canzoni fantastiche e un tasso di tecnica oltre l’udibile, il disco non fa il botto. Perché? Non si ha alcuna risposta logica. Nel mentre i fratelli Johansson, che hanno fatto palestra con questo genere, si uniscono a Malmsteen, che garantisce loro ben altri riflettori. Lo fanno in modo scorretto però, senza dire niente a Hansson, lasciano il gruppo e scompaiono. Ancora oggi nelle interviste Hansson si dice seccato da quel comportamento.
Rimasto solo, il chitarrista, con un nuovo album da pubblicare, sempre per Roadrunner, “Universe”, deve trovare una nuova band. Viene ingaggiato un cantante vero, Christer Mentzer, già attivo con i progster Pyramid, che vernicia di vagiti più melodici e progressivi le strutture neoclassiche ormai codificate; poi c’è Mårten Hedener alla batteria, Per Stadin al basso. e un session alle tastiere, Erik Björn Nielsen.
L’album è più o meno similare, con qualche sbuffo hard rock in più e tracce patinate, ma la musica classica regna sovrana. Il treno del successo per i Silver Mountain però è ormai passato e non sono saltati su in tempo. Al loro posto Yngwie saluta dal finestrino, e sfreccia via.
I Silver Mountain restano a terra col cerino in mano. “Universe” giace a fare polvere nelle buche nascoste dei “nice price”, e l’etichetta li scarica. Siamo nel 1986, quando sono ormai altre le cose che tirano, e mestamente per la band inizia il calvario dei “sottovalutati ma elogiati”, binomio nefasto, che significa solo una cosa: “sei un bravo calciatore, ci sai fare, ma vai a giocare da un’altra parte che siamo già in undici”.
Continuando la metafora, Hansson inizia a dover giocare sempre più nelle categorie minori, in campi spelacchiati e con i palloni sdruciti. Una pletora di registrazioni, tra album live, raccolte, antologie di demo tapes, e millemila cambi di formazione vedono lui e il suo progetto accasarsi a etichette semisconosciute: le stesse che daranno vita a “Roses And Champagne” e “ Breakin’Chains”.
Per carita, due album validi, ma rimasti nell’ombra, visto che negli anni’90 l’heavy metal è profondamente cambiato. Un triste epilogo, chi sa di aver inventato qualcosa, ma che non ha avuto quel tipo di “X Factor” per affermarlo e renderlo famoso. Crediamo che i Silver Mountain ogni qualvolta vedano una copertina di “Trilogy” o di “Odyssey” di Malmsteen sospirino, perché sanno benissimo che quella musica l’hanno inventata loro.
O almeno anche loro. L’ultimo vagito, nel 2003 è “Before The Storm”, poi l’oblio. Jonas Hansson ha tentato una carriera solista, ma senza grandi riscontri. Ultimo guizzo un’ospitata da Lizzy Borden sul disco “Apponintment With Death” del 2007. Troppo poco, troppo spreco. Trasferitosi a Los Angeles, ora lavora nel mondo del cinema, registrando colonne sonore per film, valorizzando il suo talento (Gary Oldman è un suo ammiratore, e non è poco).
(Marco Grosso)