Gotthard – Buonanotte sognatori!

Ho saputo dell’esistenza dei Gotthard nel 2005, con l’uscita dell’album Lipservice. Vidi un loro clip su Rock TV dal titolo Lift U Up, mi piacque e acquistai il disco. Poco dopo presi anche il live Made In Switzerland dove c’era la ballata In The Name, bellissima, anche se non era una vera ballata ma la versione acustica di un pezzone che si trova su G. del 1996. Cazzo, se li avessi scoperti in quel periodo. A metà anni 90 ascoltavo dischi anni 80 in barba a tutto l’alternative e l’estremo che mi propinavano le riviste metal. Cercavo proprio qualcuno che non fosse andato oltre, che non avesse svoltato, per ragioni creative, commerciali o quel che era.

I Gotthard, chiamati così come il Passo del San Gottardo, al limitare del Canton Ticino, vengono da Lugano, sono svizzeri e in parte questo è un problema per me, perché a sentirli sembrano di L.A., congelati da un raggio fotonico in una risacca spazio-temporale tra il 1990 e il 1991. Purtroppo per loro (o per fortuna) vennero fuori nel 1992, via BMG e videro scatenarsi la grande babilonia tra Hollywood e Melrose Place dalle stesse postazioni terziarie di noi italiani.

Abbiamo un’idea sbagliata riguardo il mercato discografico per questo tipo di musica. Sappiamo che il pubblico voltò le spalle a tutte le band americane chiamate in modo dispregiativo “Hair Metal”, e che lo fece sistematicamente all’inizio del 1992. O meglio, già era tutto andato a metà del ’91, ma fu il 92 l’anno del risveglio doloroso per tanti nomi grossi, costretti a riconvertire i tour dalle arene a club sempre più piccini e vedersi rescindere i contratti decennali tra il 92 e il 94.

Ora, parecchi di questi gruppi: L.A. Guns, Poison, Cinderella, Skid Row, Ratt eccetera, si trovarono in breve tempo con il culo per terra. Ci fu chi si sciolse e chi si mise in pausa nel congelatore a circuito chiuso di qualche etichetta in attesa di tempi migliori. Tra gli appassionati, molti di coloro, soprattutto in Europa, che ancora volevano ascoltare quel tipo di musica glamour, festosa, eccessiva, spensierata e robusta, ricevettero un indottrinamento mediatico ben preciso: era da sfigati cercarne ancora. Nel 1984 era fico comprare Tooth And Nail in un qualsiasi store musicale. Dieci anni dopo, la cosa più patetica che tu potessi fare, era ordinare dal Giappone il nuovo disco dei Dokken, Disfunctional, cosa che io feci, ovviamente.

Però non era vero, sapete? Gli Scorpions per esempio, dopo il botto di Wind Of Change, ciliegina sulla torta di una decade piena di successo stratosferico, pensate che si lasciarono annientare dalla vista delle arene semi-vuote sotto al palco? Per niente. Capirono come stavano le cose prima di altri e decisero di cambiare mercato il prima possibile.

Invece di protestare contro il sistema, non fare sostanzialmente nulla a parte seguire la vecchia routine e lagnarsi della miseria, incolpando le tendenze passive del grande pubblico che, così come per il glam metal, si lasciava guidare ancora dalle medesime molle mediatiche ma verso altri generi, gli Scorpions si rimboccarono le maniche e puntarono su quei posti del mondo in cui i mercati erano ancora interessati.

E ce n’erano parecchi. Asia e Russia per cominciare. Il Giappone impazziva ancora per il metal melodico di Bon Jovi e degli Europe. Pensate che in cima alle classifiche di vendita c’era Malmsteen, qualsiasi cosa facesse uscire.

Poi c’era la Russia, a digiuno da troppi anni e vogliosa di ascoltare i grupponi hard rock che si era persa per tanto tempo. Li avevano appena assaggiati grazie a Doc McGhee, il suo aereo privato eccetera eccetera.

E dopo la Corea via, in Malesia, Thailandia, Indonesia… Rock and Roul! Capisco che non erano posti molto in voga a livello culturale e non i soliti mercati storici del rock melodico, dovettero dimenticarsi di Los Angeles e dell’America Reaganiana, però cazzo, fu una bella fettona di introiti che permisero a Scorpions, Firehouse, Dokken e tutti coloro che accettarono la situazione e “telarono” via da Grungeland, di tirare avanti con introiti di tutto rispetto e attraversare il guado fino al nuovo millennio.

I Gotthard, appena cominciarono, con il disco omonimo del 1992, fecero il botto nel proprio paese. Vendettero in totale circa 280’000 copie, che al tempo di Girls Girls Girls era il minimo che si potesse ottenere partendo da L.A. con quel genere per sperare di proseguire, mentre nel 1992 era un risultato quasi insperato. Ovviamente andarono da paura in Giappone ma si mossero in giro per l’Europa insieme a Satrox, Victory e facendo da spalla a Gary Moore, Magnum e soprattutto Bryan Adams che gli offrì una platea di quarantamila persone.

Guidati dal manager Marco Antognini e consigliati e aiutati da Chris Von Rohr dei veterani Krokus, i Gotthard sono andati avanti bene per decenni, alla faccia di tutte le chiacchiere. Ancora oggi so per certo che nessun gruppo hard rock vanta così tanto afflusso ai loro concerti tra le Alpi e c’è un mare di figa, come capitava alle band anni 80… quando erano gli anni 80.

Io non ce la faccio però a sentirli a lungo. Dopo un po’ che mi aggrediscono con il loro hard rock stagionato inizio a immaginarmi Lugano. Addio, Lugano E adesso anch’io che sono qua Oh, Marta mia addio, ti ricordo così Il tuo sorriso e tuoi capelli Fermi come il lago e la neve, le mucche, le strade bigie, l’aria pesante del mattino, la tristezza dei poveri italiani che emigravano negli alberghi del cantone per farsi il culo sognando Le reti al sole, i pescherecci in alto mare Conchiglie e stelle Le bestemmie e il suo dolore… (Cit. Ivan Graziani, Lugano Addio)

Insomma che cosa c’entrava la musica dei Gotthard con Los Angeles, lo strip, David Lee Roth che scopa le ragazzine bionde, Tommy Lee e Ozzy che lanciano cacca sul soffitto e televisioni da una finestra, i locali assurdi come il Gazarri’s o il Cathouse? D’accordo, registravano i dischi proprio da quelle parti, al Fortress Studios di L.A. ma poi tornavano a casa, no? E facevano i tour tra la Svizzera, la Germania e chissà, Tokyo e Giacarta? Non potevo immaginare che in Svizzera ci fossero dei posti fighissimi dove vivere fino in fondo il rock come facevano gli Skid Row e i Ratt dieci anni prima. E non potevo immaginare i Gotthard stabilmente trasferiti a Los Angeles. Me li vedevo in studio con un fonico ciccione chino sul mixer e un altro tizio barbuto che non saprei chi potrebbe essere, ma durante le sessioni di scrittura eccoli lì, l’affiatata coppia di asce Leoni/Lea, in una villetta tra le montagne a creare riff simil-Van Halen. Del resto cagavano Los Angeles a ogni accordo, arpeggio e chorus ma che ci andavano a fare lì, a parte registrare? La fame? Meglio rimanere a Lugano.

I dischi dei Gotthard per me sono sempre stati degli “impeccabili non un granché”. Carini, per carità. Sembra di ascoltare tutto quello che avrebbe potuto fare con una mano sola David Coverdale negli anni 90, se avesse dato retta a John Kalodner. Che gli disse? Ne riparleremo presto.

Steve Lee, storico frontman del gruppo “lugangelino”, è morto in un incidente motociclistico in Nevada nel 2010; un finale degno di un Motley Crue. Si chiamava Stefan Alois, era un bel ragazzo e possedeva una voce perfetta per imitare Coverdale. Se chiudi gli occhi, nei primi dischi dei Gotthard sembra che ci sia il David di 1987.

La musica che gli creano sotto i Gotthard offriva a lui la possibilità di incoraggiare questa illusione, nel senso che sono i pezzi dei Whitesnake dopo la criogenesi dei Whitesnake.

Mentre scrivo sto riascoltando il secondo album, Dial Hard, uscito nel 1994, e ci trovo tanta bravura mimetica, ma è come se questi ragazzi avessero indossato le armature di un grande condottiero e fossero andati per tutta la vita a fare conferenze, raccontando in prima persona le prodezze di lui e non le loro. Nulla di male, ma la Storia ricreata in Dual Hard è scappata con i buoi e il cancello è inutile richiuderlo fingendo che non sia ancora accaduto o che continui a non accadere, ogni volta che attaccano con un pezzo come Mountain Mama o Here Comes The Heat.

Mi piace la cover di Come Together dei Beatles; è forse la sola cosa dell’album che non mi fa chiedere “dove l’ho sentito già, questo?”. Perché lo so. Ne sono sicuro; in un disco dei Beatles e degli Aerosmith.

Per dire, Love For Money è un riff dei Lion, dal brano Hard ‘n’ Heavy, che va bene, siamo d’accordo, è anche una versione rallentata di Slow And Easy degli ‘Snake (già rieditata in forma velocizzata con i Kiss in Rise To It da Hot In The Shade) ma insomma, siamo alla quarta o quinta rimasticatura dei Deep Purple. Solo se non hai i denti sei felice di mandar giù un simile omogeneizzato e dire che è “storia”.

Mi sembra che con i Gotthard non siamo noi a sognare una vita che non vivremo mai ascoltandoli, ma che siano anche loro i sognatori insieme a noi mentre cantano e suonano, capite? Che poi è quello con cui abbiamo a che fare oggi, nella maggior parte dei casi: le band nuove guardano indietro e rifanno quello che è stato. Non lo raccontano, se lo sognano.