Quanto mi piacerebbe tornare indietro nel tempo. Sono sicuro che anche voi abbiate sognato di entrare in una Delorean o in una capsula a forma di uovo e schiantarvi in qualche luogo della vostra infanzia o prima adolescenza. Prima del viaggio nel tempo l’uomo sogna di sconfiggere la morte da sempre; credo sia l’obiettivo più alto di tutti. E sono sicuro che subito dopo venga quello di dominare cronos. Se riuscissimo a fare entrambe le cose allora sarebbe il momento buono per estinguerci sul serio, altro che disastri nucleari ed epidemie. La morte e la nostalgia del passato sono la base, per tutto il casino che sopportiamo, come uomini.
Pensate per esempio a quelle giornate orribili in cui non sapete dove sbattere la testa, niente vi interessa, volete solo dormire ma non avete neanche sonno. Solo la morte e la malattia potrebbero salvarvi da quello stato. Se l’uomo smettesse di morire, allora non amerebbe più; sprofonderebbe in una depressione assoluta. E i figli? Cosa se ne farebbe se potesse andare avanti per sempre, senza invecchiare, figlio di se stesso? E se fosse capace di viaggiare nel tempo, perderebbe il senso della nostalgia, perché se potesse davvero tornare, per dire, agli anni 80, scoprirebbe sul campo che non sono mai esistiti. Non quelli che rimpiange. Ricorderebbe un decennio di merda in cui ogni giorno era uguale all’altro e davanti c’era un futuro terribilmente incerto, pieno di pericoli, virus, bombe, omicidi, corruzione e depressione. Quelli erano gli anni 80. La musica faceva schifo. La TV faceva schifo. Il cinema italiano era pieno di cazzate machiste e battute becere sui gay. Tornerebbe nel 2025 come se si svegliasse da un incubo. Meno male che sono finiti, cazzo. Ma vaffanculo Stranger Things!
Quando sento i Gotthard, anche i migliori possibili, vale a dire quelli di Lipservice, mi sorprendo a riflettere su queste tetraggini filosofiche e fantascientifiche. Cerco di collocare un lavoro come quello, nel preciso periodo storico in cui uscì, va bene?
La cosa non è difficile, visto che c’ero e lo ricordo abbastanza bene il 2005; sicuramente meglio di quanto io possa ora riesumare nella mia memoria, che so, l’anno di uscita di Hysteria dei Def Leppard, quando andavo alle elementari e il mio problema più grande erano le sconfitte dell’Inter al lunedì mattina.
Nel 2005, erano passati appena quattro anni dall’11 settembre. C’erano state alcune nuove guerre, il Berlusconismo mi mandava in bestia ma forse leggevo troppo La Repubblica, tutto qui.
Ricordo che iniziavo a scaricare musica da internet come un bastardo, ma ancora avevo bisogno di riversarla in formato audio su dei CD e fotocopiarmi la copertina degli album da metterci sopra.
Erano stati anni difficili, dal 2001 fin lì. Avevo da poco un lavoro vero, come segretario in un laboratorio analisi e il pomeriggio arrotondavo facendo “spallate” e vestizioni per un’agenzia funebre. Una ragazza mi aveva spezzato il cuore da pochi mesi e il dolore provato mi permetteva finalmente di recepire più in profondità le ballate d’amore dei Def Leppard e dei Warrant.
Ero stanco senza far niente. Iniziavo a scivolare in una depressione che solo un paio d’anni dopo mi sarebbe stata diagnosticata ufficialmente. Lipservice uscì più o meno in quel periodo. E non sapeva neanche un po’ di realtà vera. Era un tuffo all’indietro, un carpiato con doppio avvitamento in un tempo tra il 1991 e il 1993.
Per chi conosce l’AOR e il class metal americano, quello fu un triennio di stelle e di stalle. Le band che praticavano quel tipo di hard rock pieno di cori e invettive festaiole, di lenti spacca-cuore e assoli spacca-culo, furono sparate in gran quantità nelle tubature della distribuzione musicale, fino a intasarne i condotti e costringere il sistema idraulico a inserire una purga acida alla Mr. Muscolo, sturando e smaltendo quel tipo di musica via dai confini dell’heavy rotation a vantaggio dell’alternativo rock di Seattle.
Racconto spesso questa storia, ma converrete con me, che uso sempre modi figurativamente ficcanti per ripeterla.
In altre parole, Lipservice nel 2005 sembrava un disco di inizio anni 90, vale a dire un tempo che ricordavo preferibile agli anni 00. Tra il 1991 e il 1993 facevo le scuole medie. Mi innamoravo ogni anno di una ragazza diversa ma non riuscivo mai a rivolgerle parola. Iniziavo a sentire il metal e per me era meraviglioso. Non avevo il più vago spirito critico, quindi ero felice di sentirlo. Adoravo qualsiasi band pubblicassero su Metal Shock e non mi bastava mai. Allora, dei Gotthard ancora non si parlava. Il loro esordio non fu l’evento dell’anno, nel 1992. E quando tornarono con Dial Hard, ero talmente preso a seguire il death metal e l’agonia del thrash da continuare a ignorarli.
Mi sono accorto di loro grazie al videoclip di Lift U Up. Prima di leggere in sovrimpressione il nome del gruppo pensai che si trattasse di uno di quei vecchi gruppi anni 80, tornato dopo una reunion e che oggi riproponeva orgogliosamente lo stesso vecchio stile. Quando ho capito che erano i Gotthard ne rimasi sorpreso. Non mi avevano mai detto niente.
Purtroppo i Gotthard veterani possono sembrarlo, ma non lo sono mai stati. Non i veterani di un tempo che oggi rappresentano degnamente, come valenti rievocatori.
Per carità hanno più di 30 anni di carriera e vanno forte sul mercato europeo da tempo, quindi li rispetto e riconosco in loro delle qualità, ma non ce la faccio a vederli come dei contribuenti attivi di un genere che ormai era commercialmente e stilisticamente morto lo stesso anno in cui loro esordirono, con un disco che non era neanche al passo, ma dal sapore un po’ stantio.
Nel 1992 c’erano Dog Eat Dog dei Warrant e Poetic Justice dei Lillian Axe a rappresentare l’ultimo passo di quello stile. Gotthard sapeva di 1990. Era un buon lavoro ma ignorava completamente cosa stava succedendo, mentre i titoli citati cercavano di assorbire le nuove inquietudini del rock moderno, portando la melodia e l’energia su un terreno più esistenziale. Va beh…
Nel 2005 Lipservice mi piacque incondizionatamente. Aveva un sound fresco e classico insieme. I brani erano rievocativi di mille cose già sentite, ma stavano in piedi grazie a un ritornello che magari, dopo essere partito allo stesso modo di diecimila pezzi anni 80, poi concludeva con un accordo inaspettato. Si tratta del gioco di prestigio che riescono a fare i più grandi e longevi: ripropongono la stessa minestra ma ti illudono che non lo sia.
All We Are non era niente che già non fosse già stato realizzato dai Whitesnake, Everything I Want richiamava Bryan Adams e Def Leppard di inizio anni 90, ma c’era sempre qualcosa, un mix tra ispirazione e attitudine con cui i Gotthard riaccendevano quel senso di vitalità che all’appassionato di hard rock mancava così tanto, da quindici anni almeno.
Lipservice però non era solo un meraviglioso disco per i nostalgici anni 80 del 2005. Esprimeva una leggerezza che nessun disco metal di quel periodo sapeva trasmettere. Il nu metal era appena morto, il sistema discografico stava cercando di rifilarci una nuova ondata di band incazzate, ma ignorava che sarebbe stato distrutto dagli mp3. Steve Lee, con la sua voce alla Coverdale e uno straordinario parrucco targato Cesare Ragazzi, diceva a tutti di sperare, credere alla realtà oltre il visibile, nonostante il mondo fosse uno schifo, avremmo trionfato perché tutta quella merda sarebbe stata concime per il nostro domani.
Il chitarrista Leo Leoni, parlando di Lipservice, riconobbe più avanti, in un’intervista, che era venuto parecchio spensierato, positivo, nonostante la realtà fosse davvero stata pesante in quel tempo, non solo sul piano internazionale ma anche per la band, causa tutta la storia di Mandy Meyer, la causa legale e il cambio di etichetta. Ma quel disco era uscito così pieno di vita e di voglia di rinascere, oltre tutto e tutti. Era ciò che volevano fare, lo era stato per tutta la vita e non si sarebbero fermati davanti a niente. Solo tre anni dopo, il successivo Domino Effect pur mantenendo le stesse caratteristiche heavy, venne fuori con dei testi molto più cupi che parlavano di manipolazione, tradimenti e bugie in un ambito sentimentale.
Non so cosa fosse successo a Steve Lee, Leoni, a Freddy Scherer o al trio di svedesi con cui scrivevano le canzoni in quel periodo, Applegate, Thomander, Wikströmtra il 2005 e il 2008, ma evidentemente non tutto il bene che Lipservice aveva portato era stato poi proficuo anche nel privato. Io in quegli anni guarii dalla depressione, pubblicai il mio primo romanzo e diventai padre di una bambina. Vent’anni dopo Lipservice non è più una boccata di spensieratezza oltre il polverone delle Twin Towers e il trauma d’abbandono che subii con quella ragazza. In un tempo in cui la retro-mania infradicia la purulenta auto-compiacenza del vecchio rock, il disco dei Gotthard è uno spensierato tuffo nel 2005 e quei giorni che oggi la mia memoria mi restituisce placidi e spensierati.