Visto dall’interno, niente è completamente vuoto. (Nicolás Gómez Dávila)
Quando uscì In Search Of… dei Fu Manchu non so neanche se esistesse già l’etichetta stoner. A leggere Wikipedia sembra di no: la parola è stata usata per la prima volta un anno dopo, nel 1997, dalla Roadrunner, in occasione di una raccolta di gruppi che similmente riprendevano tutti quanti da un certo immaginario e da un campionario di riff e sonorità circoscritte più o meno al primo album dei Blue Cheer, i Sabbath con Ozzy, più Hawkwing, i fumetti di Flash Gordon, i Flipper, le droghe allucinogene, i macchinoni modificati, i filmacci con i bikers più diseducativi + le ragazze tettone e con la frusta alla Russ Meyer.
Questo algoritmo culturale definito da Scott Hill, leader del gruppo, era stato già sciorinato in varie interviste da un altro tizio che sembrava uscito da una macchina del tempo: Dave Wyndorf. Su lui e i Monster Magnet, poi torneremo.
All’uscita del disco che li fece conoscere un po’ fuori dall’underground, nonostante i Fu Manchu fossero in giro già da sei anni e vantassero diverse pubblicazioni ufficiali, ci fu un concerto di elogi e pacche sulle spalle da parte della critica, sia quella becera e d’accatto delle riviste metal che quella più spocchiosa e attrezzata dei “chaiérs de rock” italiani.
Era chiaro che nessun recensore riuscisse a ricordare una sola delle dodici canzoni di In Search Of…, (uscito per la Mammoth Records) ma lo scenario d’insieme aveva conquistato tutti quanti, perché la band sembrava arrivare al momento giusto, vale a dire dopo che i Kyuss si erano sciolti e proprio nel momento più critico del cammino discografico dei Magnet e per molti esperti non poteva finire tutto lì con quello strano revivalismo psycho-delico.
A dire il vero, Dopes To Infinity, per quanto non fosse stato all’altezza delle vendite sperate dalla Geffen, era un lavoro importante per l’evoluzione dei Monster Magnet, ma in quel periodo risultò deludente a molti intenditori.
Se però volevano considerare i Fu Manchu come gli ideali prosecutori di quella direzione tra deserto e Marte, beh, dovevano ancora dimostrare cosa erano davvero in grado di fare, perché In Search Of… era ehm… tutto lì.
E l’avrebbero fatto, sia chiaro, nonostante le dichiarazioni lasciassero abbastanza scoraggiati quelli pronti a scommettere davvero su di loro.
Scott Hill sembrò subito un bel cazzo di tipo. Per prima cosa ammise che i testi delle sue canzoni non avevano alcun senso. Lui e gli altri non perdevano tempo a creare dei significati, usavano le parole solo come ingrediente acustico in più per condire il suono globale. Il rock è musica, non discorsi. Fanculo chi vuol dire delle cose precise.
Poi guai a parlargli di psichedelia.
I Fu Manchu non facevano uso di droghe e la musica che avevano realizzato era venuta fuori in un contesto di stordimento esclusivamente musicale. Qualcuno tentò delle timide obiezioni, ma in risposta ricevette un silenzio cosmico dall’altra parte del ricevitore.
E non sapevano niente del futuro. Non avevano alcun progetto, a parte rifugiarsi sempre più in quel piccolo sottobosco di fantascienza grossolana, cieli stroboscopici, principesse dalle tette grandi e dal sorriso promettente + nani malvagi, ballerine monche e macchine super-potenti da sfracellarsi addosso a un muro a tutta birra, come nei film di James Dean + riff di Sweet Leaf.
Questo scenario era una cosa seducente negli anni 90. Oggi non se ne può più. Se avessi il controllo del mercato discografico, ucciderei lo stoner e lo interdirei per almeno trent’anni, ma queste cose le potevano fare solo la Sony ed MTV prima che Napster facesse saltare tutto in aria, quindi bisogna sopportare ogni cazzo di gruppuscolo senza un’idea ma “felice così”.
Nel 1996, dopo il tripudio festivaliero dei Cinema figo e filo-trash di Tarantino, eravamo pronti a rivalutare nicchie porno e di cinema violento da terza serata anche come nuovo immaginario rock. Volevamo che gli artisti invocassero beceri numi sovversivi, creassero concept setacciando gli scaffali più pulp delle librerie hippie. Quello dei Fu Manchu appariva come una nuova forma di escapismo. Per questo ai metallari sono sempre stati simpatici. Capivano cosa proponevano di fare e soprattutto, non chiedevano a nessuno di seguirli.
In Search Of… oggi non mi sembra niente di speciale. Le canzoni restano ideali istallazioni sonore per una sciropposa overdose di vecchio pop immaginifico andato a male. Quei riffoni più che delle congreghe sanguinarie nel fitto dei boschi (Cathedral) o scenari nucleari (Neurosis), evocavano solo brutti film d’azione, scene porno soft ridanciane e giovani sguaiati con il fazzoletto intorno al collo che sfrecciavano nella notte polverosa piena di diavoli e di amfetamine. Era la stessa videoteca di Rob Zombie, ma non così horror e malata.
Se solo avessero immaginato, i vari Ventriglia, Collepiccolo e Pascoletti, l’annichilente profusione di copie e copiette dei Fu Manchu, probabilmente non sarebbero stati così allegri e sbarazzini davanti a un lavoro che era felice di non dire un cazzo.
Eppure, come dice il pensatore colombiano Davila, citato all’inizio, “dall’interno ogni vuoto risulta un po’ pieno” e l’universo dei Fu Manchu avrebbe rivelato via via una propria fonte poetica capace di far scaturire qualcosa di nuovo e interessante, nonostante l’apparente retro-cidio culturale a cui aspiravano programmaticamente. Sembra il fantastico viaggio mentale di un adolescente foruncoloso sdraiato sul letto, in cameretta, in un interminabile pomeriggio d’estate uguale a mille altri: un disco dei Black Sabbath nelle orecchie, un poster di 2001 Odissea nello spazio sul muro davanti agli occhi ed ecco che l’esperienza extracorporea ha inizio. Tutto il resto è noia. Ma dalla noia nascono i sogni e dai sogni nasce sovente della buona musica.
Certo, va detto che pur realizzando album migliori e scrivendo alcune ottime canzoni, i Fu Manchu non raggiunsero mai le altezze dei Monster Magnet o dei Kyuss. Persino la fase più zuzzurellona dei Cathedral, da Ride a Caravan Beyond Redemption, infila manciate di terra nel gozzo di questi seguaci del genio del male sterminatore di tutta la razza bianca (per non riscrivere ancora una volta Fu Manchu, il personaggio creato da Sax Rohmer).

