Life After Death – Niente vita dopo Gonzo

Non ne sapevo nulla dei Life After Death e di sicuro non avrei speso la mia paghetta per acquistare il loro CD, dato il titolo e la copertina mediocri. Eppure ad ascoltarli oggi sono sicuro che mi sarebbero piaciuti parecchio. Peccato, a metà anni 90, avrei avuto bisogno di un pezzo come Love & Destruction, per attivare la mia bioritmica della prima mattina e di sicuro, il ritornello di Hard Time mi avrebbe dato una mano nei momenti più difficili del mio apprendistato sentimentale del biennio superiore. Ma lasciamo stare questi discorsi. In fondo un grande album è utile sempre o non lo è mai davvero. Voglio dire, ci sono dischi che a quindici anni ci avrebbero fatto impazzire (e ci fecero di fatto impazzire), ma che oggi riascoltiamo con un certo imbarazzo. Significa crescere e significa che non era grande musica. Perché la grande musica va bene per tutte le età, non si esaurisce quando un adolescente supera il target dei quindici anni.

L’altro giorno stavo parlando con la figlia della mia compagna. Lei impazzisce per Mr. Rain. Se non lo conoscete vuol dire che abbiamo la stessa età e che non avete figli, figliocci o nipoti. Il sistema non ha alcun bisogno di farvi conoscere questo tizio perché è pensato al dettaglio per le ragazzine. E al concerto c’era anche lei, la mia figliastra adorante. Lei e centinaia di altre ragazzine come lei erano tutte isteriche a litigarsi i posti in prima fila. Tutte con le mani protese nella speranza di sfiorargli i vestiti… un tizio di 33 anni.

Lei ha pianto e pianto e pianto per tutto il concerto di Mr Rain, tale è stata l’emozione di vederlo lì davanti e sentirgli cantare le canzoni che le piacevano tanto e che sapeva a memoria. Come noterete sono passato al tempo passato e non più al presente, perché c’è una novità.

Dopo appena due anni da quella serata, a cena è venuto fuori il nome di Mr. Rain. Ho ricordato a Greta di quel concerto, così emozionante per lei. La ragazzina mi ha guardato in modo piuttosto distratto. Sì, ha risposto, era successo, ma adesso non lo sentiva più.

“Come non senti più Mr. Rain?”

E lei: “certo, era anche ora, no?”

Ecco, questo intendo dire quando parlo di grande musica. Ti piace sempre, tutta la vita. Non ti volti e ci ripensi schifato, con la faccia che ha fatto lei. Non stiamo parlando di bambole o di vestitini colorati, ma di canzoni.

E il disco dei Life After Death ne ha parecchie davvero valide, e di sicuro è buono ancora oggi. Mi piace, è potente e fatto di ritornelli e fraseggi gagliardi, da uomini duri col cuore tenero e non uomini teneri col cuore duro.

Potrei fare una serie di considerazioni sulla scelta stilistico-produttiva. Voglio dire, nel 1996 un lavoro del genere era pura guerra al sistema e morì in gloria come aveva scelto. Tutto è stato registrato e suonato senza le sovraincisioni. Ciò che sentite è ciò che è. Si tratta di una precisa volontà. E c’è un evidente rimando agli intrecci armonici dei Thin Lizzy, non così celebrati e riveriti negli anni 90. I due chitarristi, Giovanni Santos e Terry Williams, sono entrambi ormai morti da qualche tempo, ma lasciano una testimonianza eterna del proprio talento in questo piccolo stralcio di metal tradizionale fuori stagione. E una chiara volontà di sfanculare le mode di allora e le mode di sempre. Dimostrando, tra l’altro che le mode non sono gli accordi e i riff ma i suoni e gli arrangiamenti usati per vestirli e abbellirli. La musica è come la carne, il resto che ci mettono sopra è sempre stilismo stagionale.

Vi basti prendere Red Light. Si regge sullo stesso giro di accordi delle canzoni grunge ma non è grunge perché ha la batteria e il basso pieni del metal anni 80, un ritornello schietto da vecchio hard rock e un tessuto così scarno ed essenziale che non vedrete mai le strade di Seattle e dei giovani con le camicie a quadrettoni che vagano con un basso a tracolla. Ci sarà solo un locale fumoso e dei ciccioni seduti a fissare il vuoto, in un momento d’introspezione prima della prossima spogliarellista.

Ovvio che il disco dei Life After Death guarda indietro ed è nostalgico, ma in confronto alla stragrande maggioranza dei gruppi NWOTHM, il bisogno di celebrare e di rievocare non sovrasta quello creativo. Il disco dei Life After Death è soprattutto questo, delle invettive orecchiabili, grintose, in cui la voglia di passato è presente, netta, ma sublimata e liberata in un canto robusto e fiero, quello di un certo Jack Emrick, capace di emozionare e trascinare senza virtuosismi strizza-palle la carcassa in iperventilazione di un camionista alla 30 ora di guida non-stop.

Oggi ci sono decine di vocalist come lui nella scena “revymetal”, ma allora era raro imbattersi in qualcuno che non strafacesse con i vocalizzi e ti riempisse lo stomaco come lui, cazzo.

Curioso: il gruppo, lo fondarono Phil e Gonzo Sandoval nel 1992, dopo il momentaneo scioglimento degli Armored Saint. Poco più tardi Phil se ne andò e lasciò tutto in mano al fratello, che rimase unico garante e fiore all’occhiello di questo progetto minore, ma a rischio di indifferenza generale.

Beh, non so cosa sia accaduto, però in coda alla recensione entusiastica di Gianni Della Cioppa, su un Metal Shock estivo, si scrisse la notizia che Gonzo era stato allontanato dalla band e che i LAF avrebbero continuato senza di lui.

Ovviamente tutto finì qualche respiro dopo.

Peccato perché questo è un discazzo e le cover in chiusura sono godibilissime. La prima è Don’t Believe A Word dei Thin Lizzy, per me la prova inconfutabile della grandiosità di Phil Lynott come autore di testi e poi c’è Sunshine Of Your Love dei Cream, che è una scelta più scontata ma resa davvero cazzuta, credetemi.