Ho scelto di dare a questo pezzo lo stesso titolo di un famigerato articolo di Lev Tolstoj, ma non per accusare qualcuno o scovare un vero colpevole. Questo voglio sia chiaro da subito.
Allora, a pochi passi da casa mia, alcuni giorni fa, a Cura di Vetralla, un padre ha sgozzato il figlio di dieci anni. Ovviamente la piccola Vetralla è capitombolata in uno sprofondo di terrore e doloroso sgomento, come è ovvio. Non capitava da tantissimo tempo un fattaccio così orrido. Non eravamo pronti e ci ha inevitabilmente sconvolto.
Ho avuto la possibilità di seguire da vicino l’evolversi sociale di un fatto che, allargando lo sguardo dal piccolo centro dove abito all’intera Italia, è per la verità abbastanza frequente. Tanto che il Corriere della Sera, in coda alle notizie sulla morte del piccolo, giustamente riportato in evidenza, ha messo in coda un evento simile e poi un altro ancora nel giro di un paio di giorni.
Padri che ammazzano figli. Mariti che uccidono mogli… La famiglia è una cellula sociale cancerosa. La società come la intendevamo è una massa tumorale che si cannibalizza quotidianamente e bla bla bla. Non voglio dare significati ipocriti a fatti così terribili ma ordinari nei secoli dei secoli. Di padri che uccidono i figli è piena la Storia, a tutti i livelli.
Ma torniamo a Vetralla. Un padre ha piantato un coltello nella gola del figlio, un bambino di dieci anni. La madre è rientrata in casa poco dopo l’accaduto. Ha trovato il figlio morto e il padre svenuto in un’altra stanza della casa.
Si aggiungono elementi al nudo evento: l’uomo aveva un ordine restrittivo e non avrebbe potuto avvicinarsi alla moglie e al figlio.
L’uomo è un polacco.
La moglie è albanese.
Il figlio era un polacco-albanese naturalizzato italiano pochi mesi prima che il padre lo ammazzasse; pare con l’insegnante di sostegno a scuola.
Questa cosa della nazionalità è cruciale perché molti miei compaesani hanno subito evidenziato che non si è trattato di “uno dei nostri”, “uno di qui”, ma gente che è venuta “da fuori”.
“Fuori” sarebbe un mondo vandalico, violentissimo, senza principi morali eccetera. “Qui” è un posto tranquillo, carino e pulito, dove la gente non fa certe schifezze senza dio.
All’inizio, prima che i giornali pubblicassero qualsiasi cosa, si sono rincorse già le voci nei vicoli. “Pare che il fatto riguardi una famiglia africana”. Più in specifico. “Negri!”, parola ormai bandita da tutti i buchi di culo mediatici, puliti e profumati, ma ancora ben presente in qualsiasi strada del mondo; anche una ridente cittadina come quella in cui vivo io, dove di nigga ne sono arrivati a decine negli ultimi anni e dai quali si attendono cose turpi, prima o poi.
Ma non erano loro, i negri. Pare più una famiglia di romeni, anzi no, polacchi!
Ovviamente la nazionalità è un buon modo di dare la colpa all’esterno.
E non solo i vetrallesi hanno detto e pensato che gente di qui non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Anche i giornalisti si sono sbrigati a scrivere che Cura di Vetralla è “ormai una frazione ingrassata dal contino afflusso migratorio, al punto da aver guadagnato un numero di abitanti superiori a Vetralla Vetralla, quasi a essere un paese nel paese o peggio, un quartieraccio romano dentro un paese di provincia.
Cura di Vetralla è sulla Cassia, ci si passa per andare altrove, da Roma e Napoli c’è un traffico che attraversa questa doppia schiera di case e negozi, fermandosi, incagliandosi e magari lasciando qualche scoria infettiva di metropoli ben più maligne e spietate, tipo l’eroina.
Vetralla quindi sarebbe teatro paradossale di un evento più degno della Polonia post-sovietica, piena di disperazione, fame e alcolismo giovanile o di una borgata capitolina alla Pasolini. Invece non molti sanno che proprio nel mio paese, come raccontavano certi nonni dalla memoria lunga, un centinaio di anni fa, avvenne un fatto di cronaca non meno terribile di quello accaduto ora, consumato proprio in questo piccolo agglomerato di case e oliveti, fatto di gente semplice e onesta. Una storia di stupri, impalamento e cottura a fuoco lento in un forno a legna.
Ma torniamo a oggi. Si dice, non è tutta una questione etnica. Il padre era stato allontanato per violenze domestiche e intimato ufficialmente di non avvicinarsi alla moglie e al figlio. Anche qui, la colpa sarebbe dei carabinieri “che non hanno vigilato a dovere”. Poi ancora: la colpa sarebbe del sistema giuridico, incapace di scampare femminicidi continui, tutti troppo simili e sulla carta evitabili, ma non con le blande misure cautelari previste dal giudice non accadrà mai.
Il padre poi aveva il Covid. Inizialmente i giornalisti si sono sbrigati a scrivere la parola magica per le visualizzazioni: Covid! Covid! Vuoi mettere padre sgozza figlio e poi Covid? Viene un delirio di attenzione!
L’uomo era malato di Covid, scrivono. Ma come è possibile? E i controlli? L’hanno lasciato andar via senza fermarlo? Quindi è colpa dell’Ospedale!
Dopo un po’, dando tempo alla verità di emergere, si è appurato che l’uomo è stato malato e ricoverato, ma ha finito il suo periodo di degenza, è stato dichiarato guarito ed ha potuto uscire.
Quindi la colpa è dell’etnia e della giustizia, degli stranieri e dei carabinieri?
Ma perché quel bimbo era solo in casa? La madre dove stava?
Quindi è colpa della madre che l’ha lasciato solo?
E la comunità, dove vogliamo lasciarla?
Già, la comunità…
L’altra sera si è organizzata una veglia in piazza a Cura. Io ci sono andato. Non eravamo in molti. Al funerale scommetto che invece ci saranno tutti.
Il prete dall’interno della Chiesa, attraverso un altoparlante, ha citato la parola comunità. “La comunità deve ritrovarsi” ha detto, “stare vicina in questo momento così tremendo”.
“Ma quale comunità?”, ha sbottato qualcuno vicino a me.
Beh, in una comunità vera, affettuosa e accogliente, certe cose non avverrebbero. Una madre che deve uscire, in una comunità può chiedere alla vicina o al vicino di tenere il figlio per un po’, no? Immagino una scena alla Vittorio De Sica e Cesare Zavattini, con il padre che arriva ma viene fermato dai vicini, accorsi subito con urla e bastoni. Peccato che proprio negli anni in cui la gente, specie quella povera, viveva tutta vicina e si aiutava, un serial killer a Roma fece fuori diversi ragazzini del popolino. Ricordate la storia di Girolimoni?
Va beh, chiaramente qui la comunità vetrallese non ha funzionato. Del resto, la madre, il padre e il bambino erano stranieri e potete immaginare quanto fossero ben inseriti nella cosiddetta comunità. Ora, trasportati dall’impressione e dal dolore, i vetrallesi proclamano frasi dolci al bambino e alla donna che l’ha perduto, ma la realtà, vista con i miei occhi, è che questa povera mamma e quel povero figlio, erano in una bolla in mezzo agli altri.
Li vedevo con i miei occhi andare a far colazione al bar centrale, o in giro a passeggio, o davanti all’uscita della scuola, ma erano poche le persone di qui che si avvicinavano per salutare o scambiare qualche parola con loro. E questo perché lei era albanese e non molti adulti volevano averci troppo a che fare e il figlio aveva l’insegnante di sostegno e quindi gli altri bimbi non ci giocavano volentieri. Ora verrà giù l’intero paese a dirmi che non è vero, ma tutti sappiamo come stanno le cose. Possono anche piangere tutte le lacrime del mondo al funerale. Non dubito che siano dispiaciuti e toccati, ma questo revisionismo sentimentale e civile fa abbastanza schifo.
Quindi la colpa è dei vetrallesi?
No. La colpa non di nessuno. Queste cose succedono. Ce le abbiamo dentro. Vetrallesi, romeni, polacchi o albanesi. Succedono di continuo ovunque. E non è dando la colpa a qualcosa o qualcuno che ci affranchiamo dalle nostre responsabilità.
Approfittiamo per imparare qualcosa, invece. Resistiamo un attimo.
La domanda che ricorre davanti a una tragedia simile è perché?
La domanda, direbbe Joseph Hillman, è sbagliata, ma io voglio rispondere comunque.
Una cosa tanto brutta succede e continuerà a succedere perché, la gente non crede davvero che avverrà. Non così vicino, non nel vicinato. Non in questo piccolo e tranquillo Comune. C’è un marito violento? Ordine restrittivo subito. La moglie insiste che ha paura? Ma dai, vedrai che la smette, prima o poi di infastidirla. E invece l’ammazza.
Ma no, i mostri, gli ammazzamenti, le stragi, i pazzi, tutta la merda che ci raccontano i telegiornali, è fuori, lontana. E invece è vicinissima. L’omicidio, la follia, la violenza estrema sono davvero molto vicini. Così vicini che… sono dentro di noi.
Ce l’abbiamo dentro quel padre che ha sgozzato il figlio e ha tentato di ammazzarsi. La cosa ci fa inorridire e corriamo a scaricare la colpa sull’etnia, l’educazione, la giustizia… Ma questa è solo la cazzo di natura umana. E la natura umana siamo tutti quanti, nessuno escluso.