Non so quanti di voi si ricorderanno dei Barkmarket. La sola volta che ho letto su di loro si trattò di una recensione apparsa su Metal Shock, in cui chi scriveva confessava di aver “lasciato invecchiare sul tavolo il loro promo”. Il giudizio era estremamente positivo e in gran parte un mea culpa per averli trascurati. Questo era già qualcosa, altre testate non se li filarono proprio. L’autore chiudeva con una profezia: “certamente sentiremo a lungo parlare di loro”. La prima impressione è che questa frase sia un clamoroso lancio lungo sopra la traversa. In pochissimi ricordano i Barkmarket e in trent’anni di ascolti e letture, non mi ci sono mai imbattuto neanche io.
Eppure, ascoltando Gimmick, il loro penultimo album del 1993, succede una cosa strana. Intanto è vero, non puoi catalogarli. Sì, te la cavi se li definisci “un mix di hardcore e grunge estremo”, ma rende poco l’idea. In quegli anni c’erano un sacco di gruppi che mettevano tutto insieme e tiravano dritti verso destinazioni sconosciute. In un certo senso il progressive, quello vero, lo praticavano gruppi come Barkmarket, non gli storici imbolsiti degli anni 70, in lussuose reunion e tantomeno le cosiddette progressive metal band in dirittura d’arrivo grazie ai Dream Theater.
C’era un sacco di roba inclassificabile, temeraria, pionieristica, negli anni 90 e scriverne era difficile. Io spesso paragono i tentativi dei recensori. I Jane’s Addiction avevano rotto gli argini, dimostrando che si poteva avere successo essendo qualcosa di ibrido, fuori dagli schemi. Anche il grunge, chiamato così più per aspetti estetici e mediatici che musicali, non era un sound né una vera scena, e nemmeno una sintassi creativa specifica. Era solo un’etichetta per raccogliere insieme decine di gruppi molto diversi tra loro che abitavano o si erano trasferiti da poco a Seattle.
Non è tanto questo a provocare il senso di straniamento, nell’ascolto di Gimmick. L’album è teso, ricchissimo di cambi, con il vocalist Dave Sardy che si sfianca in uno stile “pre-screamo”, come ha detto qualcuno, masticando liriche piuttosto ispirate e deliziosamente strambe. I brani sono intriganti, Easy Chair ti piglia per la colottola e ti trascina in una mischia da dopolavoro; Better Made Man è un amichevole braccio intorno al collo che pesa sempre di più, fino a spezzartelo.
Poi ci sono gli esperimenti ritmici di Dumbjaw, Radio Static che mostrano complessivamente un lavoro di grande inventiva negli arrangi e nell’ingegnerizzazione. E c’è la sensazione di aver sentito, non i pezzi, che pur essendo interessanti e di grande potenzialità, in fondo legittimano l’oblio in cui i Barkmarket sono caduti, ma la tessitura sonora dell’intero disco che trasmette una sensazione di grandezza.
E non è strano perché il suddetto Dave Sardy, una volta chiusa l’avventura con il suo gruppo, è diventato un richiesto autore di colonne sonore, produttore (Oasis, Marilyn Manson, Wolfmother) e ingegnere del suono nel giro grosso del rock e del pop. Si avverte già nel disco Gimmick, il solo che ho sentito dei Barkmarket, la presenza di un grosso talento. E questo talento è lui, ma non come frontman, paroliere freak, e nemmeno in qualità di ispiratore e guida della band, i cui risultati sono più fumo che arrosto. Lo è nel ruolo di producer e confezionatore del disco.
Tuttavia Gimmick merita un ascolto, i Barkmarket hanno un fascino inquietante. C’era dietro la American Recording di Rick Rubin.