Pitchshifter – L’Apocalisse di ieri l’altro

I Pitchshifter (anche se dovrei staccare Pitch da Shifter perché a quanto ne so, nei primi anni di carriera non avevano ancora appiccicato le due parole) sono una band che non mi ha mai “chiamato” davvero. Non al punto di spendere soldi per loro. Ho letto tante cose belle, nel corso degli anni 90. C’era gente che ci puntava forte. Una volta Psycho! gli dedicò pure una copertina. Pascoletti pare essersi pentito dello spazio e il credito offerto al gruppo. Lo scrisse vent’anni dopo, in un piccolo editoriale in coda a un Classix Metal. Temo li ricordino in pochi, ormai. Del resto chi è ancora con la mente alla scena industrial metal venuta fuori all’inizio degli anni 90?

L’industrial metal, così come il progressive rock, sono generi legati a un determinato periodo storico. Non possiamo comprendere cosa significasse per un ragazzotto degli anni 70, l’uscita di un nuovo disco dei King Crimson, così come i millennial non possono immaginare che razza di fascino esercitassero gruppi come Ministry o Nine Inch Nails, Marilyn Manson e White Zombie mentre si scivolava verso la bocca nera del 2000. C’era nell’aria la sensazione che quel genere, così spericolato nelle sperimentazioni, poeticamente meccanico, creasse l’ambiente ideale per l’Apocalisse in arrivo. C’era la netta sensazione infatti, nel cuore di tanta gente, a partire dal 1992, 1995 e via di seguito fino al 1999, che qualcosa di irreversibile sarebbe avvenuto, attraverso i computer e i media, al giro di boia del prossimo secolo.

Il nuovo millennio era minaccioso e l’industrial riusciva a catturare questo misto di avvenerismo spinto e arcaiche superstizioni, era una roba tra William Gibson e San Giovanni. Stava andando tutto a puttane e il rock stesso era rimasto intrappolato nelle macchine prevaricatrici. Da quella commistione, il Moloch luccicante avrebbe sputato un bolo di fili elettrici e viscere, santificato dai nuovi teorici mediali come La Nuova Carne.

Poi giunse il 2000 e passò come niente. La carne nuova si riempì di vermi in mezzo alla ruggine e nessuno ci pensò più. Nel 2001, quando il mondo aveva appena calato le braghe, ecco l’Apocalisse. O meglio, le cose compirono. La loro parabola mutazionale, partita da molto lontano, come tutto ciò che accade di solito, tra farfalle e maremoti, giunse non dai computer ma dal cielo. Per un momento, la marcia nuziale tra uomini e lamiere, divenne qualcosa di più di un genere cinematografico, letterario o musicale nel cestone del discount.

Poi ne capitarono ancora parecchie: guerre, omicidi di massa, epidemie e tutto il menù del vecchio testamento. Vero quel che si dice: il futuro che immaginiamo è sempre e solo ciò che già conosciamo. E oggi siamo in attesa che le acque del mar rosso si richiudano su tutti noi. L’universo musicale di gente come Pitchshifter non sembra più la colonna sonora ideale di questo proseguo verso l’estinzione. Il futuro ci ha divorato, le profezie si sono avverate, ma il metallo compulsivo, incantato e ripetuto allo sfinimento dell’industrial metal, ha fatto il suo corso.

Così, ascoltando il secondo album della band inglese, Desensitized, è inevitabile avvertire qualcosa di superato, stantio, non morto. Sicuramente è un documento interessante dei primi anni 90. Il gruppo lo intitolò così perché era preoccupato per come la nostra vita sempre più ripetitiva, potesse svuotarsi di qualsiasi significato, trasformando il mondo occidentale in una specie di mattanza controllata in cui l’omicidio (A Higher Form of Killing), la sbornia mediatica (Cathode) e il controllo delle informazioni (Gatherer.of.Data) non siano vissuti come dei pericoli, perché fanno già parte della quotidianità e quindi non ci spaventano. Peccato che la quotidianità sia la cosa più venefica di tutte. Moriamo un pezzetto al giorno, rassicurati da mani esperte, ammazzati costantemente dal sistema, che ci sussurra di tirare avanti, avanti, verso il macinatore di Alan Parker e Roger Waters.

Dopo i Carcass, vegetariani ma non militanti, i Pitchshifter cercarono al tempo di “sensibilizzare” il mondo su quanto fosse sacra la vita degli animali e su come fosse dannoso e sbagliato ucciderli e mangiarli. Allora non gliene fregava niente a nessuno di tutto questo. Oggi le cose sono molto cambiate e forse è un po’ anche merito della band inglese.

L’album si staccava dai rimasugli death metal e i Fleshgot degli esordi, per qualcosa di più vicino ai Ministry. La gestione dei riff deve molto a Psalm 69, ma c’è un’atmosfera più plumbea e tetra rispetto alle cose di Jurgensen & Barker. Il produttore è Paul Johnston, già molto attivo nel giro death/doom metal (Cadaver, Napalm Death, Benediction, Cerebral Fix e Cathedral, tra gli altri).

Musicalmente non mi sembra ci sia oggi qualcosa di significativo in giro, che debba dire grazie ai Pitchshifter.