Majestic – Rubando l’autoradio di Malmsteen

Sul finire degli anni’90 aveva preso piede un certo revvial sinfonico e neoclassico di tanti gruppi, che ispirandosi alcuni, scopiazzando altri, a Malmsteen in primis, ma a tutto quel metal ottantiano che, delle strutture barocche e altamente melodiche aveva fatto una bandiera, era stato accantonato dai gusti medi del pubblico. Ecco allora che poi, sulla scia dei più celebrati Symphony X e Royal Hunt e ripescando i guitar hero come Vinnie Moore, Tony Mc Alpine, i Cacophony e tanti altri, una nuova generazione di musicisti aveva riscoperto le scale minori, i clavicembali, virtuosismi vocali e le strutture fortemente settecentesche. Io ho sempre adorato questo filone, e ho seguito anche le sue evoluzioni nei decenni e tra i tanti progetti nati (alcuni durati un battito di ciglia), ho sempre messo ai vertici i Majestic, per alcuni motivi.

Omonimi della marca di autoradio e hi-fi, in realtà dalla Svezia con furore (la melodia gli svedesi ce l’hanno nel DNA, poco da dire), in soli due album hanno saputo confezionare una sequenza strepitosa di canzoni, tanto che preferire l’uno o l’altro è solo una sfumatura. Abstract Symphony è del 1999, Trinity Overture del 2000, poi misero fine alla band. Il mastermind, principale compositore e virtuoso delle tastiere è Richard Andersson (poi nei Time Requiem, altra eccellenza e Space Odyssey), che raccolse intorno a sé altrettanti talenti, capaci di compattarsi in modo eccellente sui canoni del neoclassico, con una vena power e più pesante di tanti altri però.

Nel secondo disco poi c’è Apollo Papathanasio, che poi cantò pure con gli Spiritual Beggars, i Gardenian, Firewind, e facendo comparsate pure negli Arch Enemy e Kamelot come backing vocalist. La grande forza dei Majestic risiedeva nella combinazione ottimale di tecnica e songwriting: grandi virtuosi applicati a pezzi molto molto ben fatti, con melodie assolutamente esaltanti e glorificatrici, ritornelli da brivido che si stampano in testa e non ne escono più (Golden Sea, Black Moon Rising, Entering The Arena, Curtain Of Fire).

A tratti si sente anche la vena hard rock dei migliori Europe, quelli di Out Of This World. Nulla di originale, certo, Malmsteen e Vinnie Moore (quello del primo incredibile Mind’s Eye) avevano già codificato tutto, ma i Majestic avevano saputo aggiungere un ingrediente fondamentale: il gusto e canzoni fatte da dio. Vi basta? A me si. Altri avrebbero riproposto il genere, ma con risultati seppure buoni mai paragonabili agli svedesi: Dioniysus, Concerto Moon, At Vance, Narnia, Magic Kingdom, Adagio.

Bravi, ma dieci passi indietro, a mio avviso, ai Majestic. Non c’è un solo filler in ognuno dei due album, e ti viene voglia di riascoltarli uno dietro l’altro a ripetizione. Longevità, formula magica. Che altro aggiungere? Che oggi il neo-classical metal vive ancora, ma non ha più nulla da dire, molto spesso, auto-riciclando il capolavoro Marching Out, (il mio album preferito di Yngwie) cambiando l’ordine delle scale e degli accordi.

Rimpiango la genuina voglia di ispirarsi ad altri, ma con l’orgoglio di metterci del proprio. Oggi invece troppe volte si sente solo la voglia di copiare per piacere a sé stessi. Arridateci l’autoradio, ripigliatevi il lettore mp3 scassato!

Marco Grosso