Non avevo mai sentito parlare di Biloxi. E se ora ne so qualcosa, lo devo ai Biloxi. Si tratta di una città e se loro si chiamano così è perché vengono da lì e hanno voluto portarsi dietro, nel cammino verso il successo, la gloria o quel che è, il nome del posto in cui sono nati e cresciuti nell’insoddisfazione e nel miraggio di un futuro eccitante ma lontano da lì. Il loro nome parla di un abbandono e di un tradimento, se volete, e di un omaggio a tutto questo, certo. Perché è evidente che se lasci un posto e vuoi fare strada nel mondo del rock, hai la testa piena di visioni, sogni o aria (a seconda di come la vede ognuno di noi). Non so come la pensassero quelli che a Biloxi restarono: città del Mississippi, che si scrive con due p e non con una sola, come ho scoperto solo ora.
Sulla città di Biloxi so anche altre cose, grazie a Wikipedia. Si tratta di uno dei posti di villeggiatura più attraenti del sud, assieme alla Florida. Almeno fino al 2005, quando l’uragano Katrina la devastò, spazzando via il 90 per cento delle sue strutture, pubbliche e private, uccidendo circa una sessantina tra villeggianti e residenti. Dove saranno stati i Biloxi in quel momento? Forse ancora in California o sparpagliati in qualche altro Stato dell’Unione.
I Biloxi dovrebbero girare ancora, sapete? Negli anni sono tornati a più riprese, dopo un iniziale collasso all’indomani del primo disco ufficiale: Let The Games Begin. Uscì nel 1993 e rientrava nella categoria AOR ma con una certa rocciosità nel sound che lo rendeva più terrigno e proletario di altre produzioni più auliche di inizio anni 90, sempre in quel versante sfigatissimo e intramontabile.
Let The Games Begin è un titolo che suscita commenti sardonici, col senno di dopo. Insomma, nel 1993 i giochi erano belli che conclusi per dei tipi come i Biloxi. E quel disco parla chiaro, oggi più che mai. Certe sonorità, gli arrangi, la confezione, tutto era scaduto abbondantemente. Quel disco ha molte più possibilità di essere apprezzato oggi, con mamma internet e i suoi capezzoli per tutti, che non al tempo dell’uscita. Allora non aveva alcuna possibilità.
I Biloxi però si erano trasferiti in California da un po’ prima che uscisse Nevermind e iniziasse la Guerra del Golfo (le due cause calamitose che posero fine al regno dei Motley Crue e l’edonismo venereo dell’hair metal) e con grande impegno e perseveranza erano riusciti, i Biloxi dico, a costruirsi un certo seguito.
Non pensiate che fosse facile per un gruppo come il loro, nel 1986 o giù di lì, con tutte le carte “giuste” per far strada nel business rock americano di quegli anni, trovare una sedia vuota abbastanza capiente per tutti e quattro quei “culallegri di Angel Beach”. A L.A. c’era una concorrenza pestilenziale, aberrante. Loro ce la fecero a emergere abbastanza da arrivare al contratto, per quanto un po’ troppo tardi. Decisamente troppo tardi.
Che poi di quale contratto sto parlando? L’album uscì per la Ash America Records. Mica lo so se era un’etichetta “vera” o una cosa creata dalla band stessa per lanciarsi da sola dopo anni di attese e false promesse.
La Ash pubblicò solo il disco dei Biloxi, in varie edizioni di cui una per il mercato giapponese e poi non ha avuto altri titoli in catalogo, quindi penso ci fossero loro, dietro. E in un periodo in cui i gruppi più quotati del genere non si vendevano più (e non si volevano più vendere) dai piani alti del mondo discografico, i Biloxi cosa potevano ottenere? Non lo so, ma quello che raccolsero con Let The Games Begin fu abbastanza. Divenne un lavoro di culto in California, o almeno si dice.
Cosa ne penso io? Beh, è buono, sicuro. Se vi piace l’AOR massiccio accomodatevi, ma non saprei… è un po’ malinconico sentire un lavoro che sembra aver preso troppa rincorsa per calciare il suo rigore a porta vuota. La porta non c’è più e lo stadio è diventato un McDonalds. I brani sono costruiti con gusto, da gente che sa il fatto suo. Siamo nel manierismo class U.S.A. in cui il genere affogava da alcuni anni. Ci sono quindi un po’ di Journey, Stryper, Kansas e via dicendo.
Troverete qualche cosa costruita abbastanza bene per diventare una hit (Angel, Run For Your Life), c’è il brano completamente acustico (Somewhere In The Night) fatto apposta per seguire la scia di Mr.Big e Nelson (già entrambi nella buca del nice price) e c’è tutta la solita sbobba hard-pop-metal che potete aspettarvi, che io adoro e che quel pubblico dei primi anni 90 era decisamente stufo di sorbirsi.
Però bisogna riconoscere che ci sapevano fare, i Biloxi. Oltre a essere molto bravi a suonare, sapevano scrivere in modo tale da schivare le scontatezze più scontate. In ogni brano c’è sempre qualcosa che ti aspetti e che non arriva, capite? Una melodia è simile a decine di altre che avete sentito, ma nel momento di chiudere su un certo accordo, ecco la sterzata nella direzione inattesa o la frenata rullante che spezza tutto e rilancia con un altro riff. E via con un piccolo passaggio in minore che nessuno aveva mai pensato di usare e che è roba decisamente studiata da gente studiata.
C’è in tutto l’album una discreta tensione e un livello che non scivola mai troppo sotto, se ignorate i testi, almeno. Io l’ho fatto su consiglio di decine di commentatori del sito Heavyharmonies. Let The Games Begin quindi si ascolta e si riascolta bene facendo mille altre cose, per tutta la mattina assolata e il pomeriggio piovasco da cui vi sto scrivendo.
Vi auguro sane sgroppate nei campi verdi e tanti buoni ascolti.
https://www.youtube.com/watch?v=5DIi8SSxey8