Paradossi del Metal – Se il Contenuto diventa Accessorio

In questo periodo il lavoro editoriale e di scrittura, che mi coinvolge e che coinvolge congiuntamente le collaborazioni con altri validi autori sul nuovo Sdangher cartaceo e il futuro Zhool sempre di carta, è stato molto intenso e accurato. Tutti noi abbiamo passato serate a correggere articoli, impaginare, illustrare e confezionare riviste autoprodotte non convenzionali, distanti dalla massificata plasticosità e ripetività di altre realtà. Un valore aggiunto e un modus operandi molto soddisfacente, che mostra però un lato oscuro, uno svantaggio evidente. Da una parte c’è la certezza di aver lavorato come sempre, da tanti anni, in modo slegato da qualsivoglia logica clientelare e “amichettestica”, tipica di molte realtà nell’ambiente metal italiano, dall’altro il constatare che c’è sempre una gran fetta di pubblico che non capisce o non accetta modi diversi dal soliti di trattare questi argomenti.

Nell’era dell’immagine e del consumismo sfrenato, ci troviamo a fare i conti con un fenomeno che, per quanto risulti paradossale, merita un’analisi attenta. Parliamo di quelle affezionate creature del mondo dell’editoria musicale – riviste e fanzine metal – che, purtroppo, si vedono relegare a una mera funzione accessoria, svuotate del loro intrinseco valore.

Sì, perché oggi ciò che conta non è tanto il contenuto scritto quanto il gadget allegato: un CD, una cassetta o, chissà, una t-shirt brandita con un logo che neanche Gino Padella, il più tvue defender italiano oserebbe indossare. Tra le molte email ricevute per quello che facciamo, mi ha colpito, molto negativamente, il fatto che una discreta parte di persone poneva la fatidica domanda: “si, ok, la rivista, ma c’è allegato un cd, una t shirt, una cassetta? Se si la compro, se no non mi interessa”.

Eppure, nonostante l’intelligenza e la passione che animano tanti scrittori, pare che il pubblico si sia ormai convertito a un consumo edonistico e frenetico, improntato su un “prendere, portare a casa e archiviare”. Perché, d’altronde, chi se ne frega dell’articolo che sviscera l’analisi di un gruppo o di un genere visto da un’altra prospettiva, quando si può ottenere un brano inedito di una band che, mediaticamente parlando, fa il paio con un gruppo qualsiasi al grado zero di valore?

Osservare questo scorrere delle cose suscita una certa angoscia, insieme a una buona dose di sarcasmo. Quante volte abbiamo visto abbonamenti a riviste che vantano “in via esclusiva” una ristampa di un album cult su vinile colorato, mentre il testo di presentazione è un misero copia e incolla di press release?

Del resto, che dire dell’intellettualismo latente farlocco, che affoga nel mare di t-shirt con il logo di band come il Metallica? Ma ci rendiamo conto che, per alcuni, il vero trionfo del metal non è ascoltare un album con una qualità audio eccelsa, bensì la performance di indossare orgogliosamente un indumento che fa certificare la propria appartenenza a una tribù musicale?

D’altronde, come considerare chi, con la sola aspettativa di riporre in un angolo della propria cameretta un’opera scritta che, per questi consumatori, rappresenta semplicemente un ostacolo da superare? È affascinante notare come la superficialità sia diventata sinonimo di appartenenza: “Io sono un metalhead” si traduce sempre di più in “Ecco la mia nuova maglietta presa con una rivista – e sì, certo, il CD lo metterò incellofanato in libreria, tra tre anni lo rivendo al triplo ai collezionisti”.

È dunque un’epoca di patchwork culturale, in cui i frammenti vengono ridotti a merce di scambio. Non bastasse, il tutto è condito da un irresistibile aroma di nostalgia per un’era passata ormai saccheggiata, l’epoca in cui leggere una recensione o un’intervista richiedeva impegno e non era mera decorazione di un pacco regalo.

E così, mentre il girotondo di merchandising e scambi si avvicina a un epilogo quasi surreale, il vero potere del metal si dissolve in una iperbole di consumismo. Un gioco delle parti, un “facciamo finta che…” svuotante dell’essenza e del valore di un’opera: quella scritta, a vantaggio del “gadgettame” che la rende accessorio e non nucleo principale.

Lo scrivere e creare contenuti ha senso per chi poi ne vorrà usufruire non solo per avere gli oggettini ma aprine la pagina e leggere. Quelle email, che sicuramente sono state ricevute da altri che producono contenuti editoriali come noi, fanno cascare le braccia, mostrando una tendenza ormai irrimediabile: la forma batte la sostanza.

Ecco un buon motivo per cestinarle e ribadire con grande vigore un concetto: con Sdangher e Zhool, scriviamo per fare riflettere, provocare, pensare, per porre nuove prospettive inedite su questo o quello. Se tu per un pezzo di plastica che suona o uno scampolo di tessuto con un disegno, ti accolli con quasi il disprezzo di doverti sorbire una rivista, ecco, per quello che mi riguarda, sono felice di perderti per strada. La perseveranza di proporre la parola come valore assoluto e non accessorio non ci abbandonerà mai,

Marco Grosso