I Motley Crue – La musica è l’ultima cosa

Motley Crue dei Motley Crue ha guadagnato gran credito nel corso degli anni. Oggi tutti ammettono senza difficoltà quanto l’album sia potente, straordinario e bla bla bla. C’è chi lo definisce “l’ultimo grande disco dei Motley Crue”. Al tempo della sua uscita fece fiasco. E non solo il disco; anche il gruppo, la formazione con John Corabi, collassò in un tour disastroso. Confesso che lo comprai un anno dopo la sua uscita e ne rimasi deluso anche io. Volevo i Crue di Dr. Feelgood e mi ritrovai questa gigantesca melassa di raucedine e distorsione, riff stile Iommi, Zep, rimandi anche ai “moderni” Alice In Chains e Soundgarden. Curioso però che i veri “moderni” in realtà fossero i primi e non tutta la grungitudine che molte band hair metal tentarono di usare all’inizio degli anni 90. Oggi la parte più datata di Motley Crue è proprio quella vicina alle cose di Seattle che si sentono per esempio in Uncle Jack o Droppin’ Like Flies.

Un gran disco, ok, c’era Bob Rock al suo massimo, una band rigenerata e con una evidente voglia di cambiamento, spinta da una innegabile ispirazione e tutto il resto. Motley Crue nel corso degli anni ha riguadagnato il rispetto che all’inizio, per ragioni comprensibili, la gran parte dei fan del gruppo, non gli portò. E io ho già scritto diverse volte su questo disco. Ne ho sempre detto bene sfondando una porta scardinata da un pezzo. Dall’ultimo ri-ascolto di alcuni giorni fa però, qualcosa ha iniziato a venir meno nel mio entusiasmo. Forse il percorso di rivalutazione, che cominciai verso la fine degli anni 90, dopo l’uscita di Generation Swine, si è compiuto definitivamente alla discutibile “rinascita” di Saints Of Los Angeles e adesso non ho più nulla da restituire all’album, posso ascoltarlo per ciò che è, sbattendo il grugno sui suoi limiti che il tempo stesso ha svelato.

Suona ancora da paura. Le produzioni dei primi anni 90 sono grandiose, anche se così costose da risultare peccaminose. Ose-ose-ose… Oggi mi manca quel lavoro raffinato, maniacale, distribuito nell’arco di vari mesi, per forgiare un sound che potesse ridefinire e rivestire a nuovo un gruppo con già dieci o più anni di carriera. Molti non si interrogavano su certi aspetti delle uscite discografiche, fino a vent’anni fa, puntavano dritti alle canzoni e allo stile: se era diverso, troppo strano o ancora nei margini della coerenza. Io invece ero stregato dalle metamorfosi che i gruppi subivano nel loro insieme. Morivo dalla curiosità di capire “come avrebbe suonato” il nuovo dei… metteteci chi volete: Anthrax, Queensryche, persino gli Iron Maiden.

Ma non voglio fare il nostalgico. Ora i tempi sono altri. E Motley Crue oggi mi sembra ancora un disco in gran parte riuscito, schietto e ambizioso, ma completamente fuori dalle logiche commerciali di cui gli stessi Crue erano schiavi consapevoli. Cosa si aspettavano? Immagino che in quel periodo avessero un tale successo e possibilità economiche da non essere arginati e non avere intorno qualcuno abbastanza cazzuto e disinteressato da dirgli che stavano sbagliando e che l’avrebbero pagata cara. Il loro manager stette a guardare e oggi ancora si mangia le mani.

Non che dirgli di fermarsi sarebbe stato sufficiente a farli ragionare. Nikki Sixx è l’uomo a cui non si può dire cosa fare, mai. E gli altri facevano quello che lui decideva di fare, almeno in quel periodo. Però era palese che quello non potesse funzionare come disco dei Crue e che John Corabi non avesse le capacità per sostituire Vince Neil.

Era diverso, un compositore di razza, ottimo chitarrista, bella voce sporca e potente, ma sul palco non era capace di traghettare la musica al grande pubblico come aveva fatto Neil per molti anni. E inoltre, come disse qualcuno che in passato aveva gestito i Motley Crue, non sapeva cantare Wild Side, Dr. Feelgood e Home Sweet Home. La band era così entusiasta di prendere una nuova via con lui che durante il provino, gli fecero intonare solo Jailhouse Rock e poi passarono subito a improvvisare qualcosa. Quel qualcosa piacque da morire a Sixx e gli altri. Punto. Ma nessun brano classico della band era nelle corde di Corabi e nel tour, quando scoprirono la terribile realtà, furono dolori nel culo. Fu una delle varie terribili realtà che aprì gli occhi (e il sedere) a Nikki Sixx nel 1994.

Ma fu non abbastanza istruttivo, non ancora, considerando la strada che il gruppo avrebbe preso con il successivo Generation Swine. Nonostante il ritorno di Neil, che parafrasando Zappa su solo per i soldi, non si trattò di un ritorno allo stile classico. Le canzoni erano già pronte quando Vince accettò di riprendere il suo posto. Se ne pentì appena sentì su cosa avrebbe dovuto cantare. Sixx e Tommy infatti avevano spinto il materiale, in parte concepito assieme a Corabi, verso l’industrial, con risultati altalenanti. Inoltre a entrambi era presa la smania canterina. Volevano tutti e due fare quello che fino al 1992 era stata la sola prerogativa di Vince Neil. E non solo. Tommy sembrava aver assunto, durante il periodo insieme a Corabi, una certa esperienza al microfono e riversava consigli a Vince su come interpretare questo o quel pezzo, cosa che non piacque per nulla all’altro.

Il disco vendette, ma solo perché il pubblico voleva dire al gruppo di restare insieme. Non fu per le canzoni. Nessuno oggi reclama una nuova Afraid o Glitter.

Sappiamo ormai come erano andate le cose tra Vince Neil e il resto della band nei mesi della rottura. Già durante la promozione di Decade Of Decadence, Sixx aveva dettoa Metal Shock che per il futuro, il gruppo avrebbe tentato di fondere insieme l’irruenza dei Pistols e la tecnica degli Zep. Il disco omonimo fu proprio questo e l’incontro con Corabi, il cui destino orbitava attorno ai grossi nomi del glam già da tempo, visto cvhe avevano cercato di ingaggiarlo pure gli Skid Row, permise a Sixx di intraprendere quella via più primordiale e pesante. Era il tipo giusto: cagava grandi riff stile anni 70, suonava la chitarra con un bel tocco doom e si intendeva alla perfezione con gli altri tre del gruppo, al punto che nelle sessioni che poi sarebbero diventate Motley Crue, realizzarono materiale per un doppio.

Ovviamente Neil e la sua voce da papero, come si scriveva di lui già negli anni 90, non erano adatti a quel cambiamento. E il cambiamento, dopo il successo di Nevermind, era obbligatorio per Nikki e Tommy. Inoltre Vince era dell’idea di non cambiare strada, comunque. A lui andava benissimo proseguire fino alla morte sulla scia di Dr Feelgood. E infatti Exposed, con l’aiuto di Steve Stevens e soprattutto la penna di Phil Soussan, fu accolto come una manna dai vecchi fan dei Crue perché era aggrappato al culo del passato con la disperazione di uno che non sa nuotare. lo sarebbe a un salvagente (a forma di papero).

Exposed non è irrinunciabile, ma dentro ci sono dei picchi notevoli, specie quando Stevens e Neil si allontanano dalla matrice glam e prendono vie più impervie (The Edge).

Ma già il successivo Carved In Stone, grazie alla discutibile influenza del duo produttivo Dustbrothers, anche Vinnie si protese in una direzione più alternative, anticipando, secondo lui, il Nu Metal prossimo venturo. Mah… Il disco è mediocre. Persino la canzone dedicata alla figlia Skylar (Skylar’s Song) non è granché. Così come è una vera schifezza il brano di Tommy Lee, scritto e interpretato da egli medesimo, nel frastagliato finale di Generation Swine. Interessante la comparazione tra questi due pezzi: Skylar’s Song e Brandon, credo che nessuno ci abbia mai pensato a farla. Il primo che vede un papà piangere la morte di una figlia piccola per una grave malattia e l’altro in cui un altro padre gioisce per la nascita del primogenito e si compiace pure della madre che glielo ha donato. Sono due momenti incommensurabili nel cammino esperienziale di un uomo ma non garantiscono, se quell’uomo è un artista, l’ispirazione sufficiente a esprimerne la caratura emotiva.

Chiudendo su Motley Crue, posso dire che alcune canzoni hanno perduto la loro battaglia nel tempo. Oggi praticamente tutto il lato B è deceduto. E nonostante i grandi proclama degli anni 90, se andiamo a leggere le track-list dei concerti nel nuovo millennio, non resta traccia di quelle canzoni, nemmeno Power To The Music, Misunderstood e Hooligan’s Holiday. Sarà perché le cantava Corabi e Vince magari non vuole (e sa di non potere) cimentarvisi, ma nemmeno Generation Swine, escludendo Glitter, scritta da Sixx con Bryan Adams, è riproposta al pubblico. E non è che il pubblico se ne risenta.

I Crue non hanno realizzato molti album. Alcuni sono pure modesti, però sono riusciti a restare a galla praticamente per quattro decadi, spesso grazie a cose che con la musica non c’entravano quasi nulla. Per esempio la chiacchieratissima soap sulla relazione tra Tommy e Pamela, che era reality prima dei reality e persino social molto prima dei social; una vera avanguardia iniziata con scenette famigliari poi riproposte dai Ferragnez e conclusasi a sex tape, botte, alcolismo e persino la galera per Lee.

La vita di Neil era altrettanto eccessiva. Avrebbe potuto vivere lui la medesima love story sovraesposta e con la stessa conclusione, ma le cose andarono diversamente perché non sposò mai Pam Anderson. Se la bombò e basta, come fece con innumerevoli altre.

Anche negli anni 80 i Crue fecero il botto nonostante un disco terribile come Thatre Of Pain. E negli anni 2000, si rilanciarono definitivamente, non per via della musica, ma di un libro in cui la band raccontava senza censure le proprie discutibili peripezie tra sesso, droga e rock and roll negli anni 80. Ovvio che parlo di The Dirt di Neil Strauss.

New Tattoo è l’album del ritorno alle origini ma a tutti gli effetti è “il disco Casper” del gruppo. Saints Of Los Angeles è solo un lavoro decente, un restyling riuscito di un gruppo che ha capito di non dover dire nulla di nuovo per andare avanti. L’ultima cosa a convincermi sul serio nella produzione creativa del gruppo è il singolo If I Die Tomorrow, inserito insieme a un paio di altri inediti nella raccolta Red, White &  Crue. E non parliamo comunque di un capolavoro come il brano Dr. Feelgood o Kickstart My Heart.

Insomma, vai a guardare che Motley Crue fu davvero l’ultimo grande ruggito artistico del gruppo. Su Rolling Stone, ha detto Sixx, qualcuno scrisse che quello era il disco dell’anno, o meglio, lo sarebbe stato se sopra non ci fosse scritto Motley Crue. Secondo me è un’esagerazione, ma di sicuro è l’ultima volta in cui la band tentò di puntare tutto sulla musica. Da lì in poi, forse esagero, ma il gruppo capì che per sopravvivere realizzare un gran disco, era l’ultima delle cose. E infatti per poco il lavoro con Corabi non li uccise.