Da ragazzino, quando scoprii che i Death Angel avevano proseguito la propria carriera cambiando il nome in The Organization, rimasi piuttosto perplesso. Quale fosse la ragione, non mi detti la pena di indagare, anche perché non era così semplice scoprirlo. Solo chi aveva seguito il cammino del gruppo, spulciando tra le news di Metal Shock e HM, era al corrente di questo passaggio e dei motivi sostanziosi che lo avvaloravano. Dopo molti anni ho deciso di scavare un po’. Non che ci sia voluto molto. Un paio di click dal cellulare e dopo cinque minuti di lettura sapevo già tutto quanto. E stranamente, un paio di tasselli impensabili, nella mia testa sono andati finalmente al loro posto.
Per dire, io mi sono sempre chiesto come mai avessero coinvolto gli Alice In Chains nel Clash Of The Titans del 1991. Ho inoltre pensato per anni a che razza di accoppiata della madonna potesse essere stata quella dei Judas Priest di Painkiller e quella dei Pantera di Cowboys From Hell. I due gruppi andarono in tour insieme nel ’91 e non so cosa darei per tornare indietro nel tempo e vederli dal vivo, sullo stesso palco, in quel periodo incredibile per entrambi. Chi sostiene che dopo l’89 il metal sia morto, può solo sucarlo davanti a un bill del genere.
Beh, questi due eventi sono collegati a un altro, un incidente stradale capitato ai Death Angel.
Quando il loro pullman andò fuori strada, nel deserto di non so dove, il gruppo si stava muovendo verso la prossima data del tour di Act III. Anche se oggi, secondo il revisionismo corrente, quel momento rientra nella cosiddetta fase “classica e irripetibile” del gruppo, e l’incidente è visto come una sfiga diabolica che mandò all’aria i piani di successo e consacrazione a cui i grandi Death Angel erano a un passo, beh, le cose non stavano davvero così.
Il gruppo, ricordando l’accaduto dopo anni, ha detto che era già immerso in una profonda frustrazione. Stavano dando tutto da anni, senza fermarsi un momento, ma l’impressione di non essere arrivati da nessuna parte e di non arrivarci più, era diffusa tra tutti e cinque i componenti. Erano stanchi, esauriti, incazzatissimi. L’incidente fu quasi una benedizione perché li tolse letteralmente da una strada che li avrebbe portati verso una rovinosa e deflagrante sconfitta.
Le gravi condizioni di salute del batterista, Andy Galeon, permisero al gruppo di saggiare davvero la voracità e la mancanza di principi del music business. Quando la Geffen li scaricò perché i Death Angel rifiutavano di sostituirlo in via definitiva con Chris Kontos, il gruppo lasciò il campo ad altri. Ecco così gli AIC al posto loro al Clash Of The Titans ed ecco i Pantera, al posto loro, a far da spalla ai Priest. In fondo, non erano palchi da poco, quelli. E servirono a due band in ascesa per lanciarsi definitivamente nell’olimpo del metallo che urla, ma per i Death Angel, erano occasioni che non avrebbero cambiato granché le cose, non al punto di mandare a casa il loro amico e parente infortunato per offrire il posto a un mercenario qualsiasi in nome dei soldi. Un cazzo.
Che poi si riprese, Andy. Un paio di anni dopo era di nuovo in formissima, però due anni di buco, per un gruppo che sta cercando di raggiungere il successo, sono la rovina, Con lui e senza il frontman, Mark Osegueda, uscito dai Death Angel per segnarsi all’Università e farsi una posizione (salvo poi tentare la selezione per diventare il cantante degli Anthrax e fallire) i quattro elementi rimasti decisero di cambiare nome e ripartire da zero. Prendendo spunto da una canzone di Act III e un’esperienza tra l’inquietante e il grottesco al tempo dell’altra band, si denominarono The Organization, appunto.
Fecero di sicuro una mossa rispettosa nei confronti dei fan e coerente con le intenzioni di allontanarsi definitivamente dal thrash. Altri, usando lo stesso nome, avrebbero provato a vendere il medesimo disco che per quei ragazzi invece era troppo diverso, lontano dalle cose dei Death Angel per non trasformarlo in una fregatura per quel pubblico che li aveva amati sì, ma per ragioni che non avevano nulla a che vedere con la strada intrapresa adesso.
Il disco, intitolato anch’esso The Organization, infatti è un mix di funk, alternative, ballad intimiste e… post-thrash. A cantare, e pure discretamente, c’è il chitarrista Rob Cavestany, il quale ammette di vivere così male il ruolo di cantante, che vomitava tutte le sere prima di salire sul palco a esibirsi. In effetti è dura se non ce l’hai davvero dentro di te. Per lui fu una forzatura che pagò molto caro. Ma a sentirlo su disco è piacevole. Sicuramente se la cava molto meglio di Jeff Waters quando si occupò delle voci con gli Annihilator.
Le canzoni non sono tutte irresistibili e nell’insieme c’è un bel po’ di confusione sulla direzione da prendere. Sembra che il gruppo avesse l’imbarazzo della scelta e ci mise un po’ di tutto, sperando che alla fine un ordine si manifestasse spontaneamente.
Eppure The Organization, come disco, esprime più che una direzione stilistica, un viaggio, uno spostamento creativo. La prima parte, con Free Burning, Brainstorm, The Lift, manifesta l’approccio cazzuto e diretto di chi è libero e allo stesso tempo desideroso di sfogarsi un po’. I brani sono sperimentali, audaci e allo stesso tempo d’assalto (prendete il solo di sax su un ritmo speed in Lift). Le parole sono chiarissime:
Mano nella mano con le cattive notizie
Viviamo dentro le nostre scarpe
Anche se siamo stanchi, con le spalle al muro
Puoi scommettere che non ci arrenderemo
Colui che impara dal suo passato
È colui che ride per ultimo
Purtroppo, The Organization è la dimostrazione che, almeno sul piano delle strategie commerciale e degli errori di carriera, al gruppo interessasse poco imparare. Loro volevano più mettere in pratica ben altri insegnamenti. L’intero progetto è infatti, ieri come oggi, un vaffanculo a tutto un sistema che li aveva succhiati e sputati; anche se l’inserimento del funk e qualche ammicco ai Faith No More, può far pensare che avessero voglia di piacere al grande pubblico, ottenendo i risultati peggiori. Brainstorm e Botton Dog sono due esempi di crossover metal avariatissimo.
Poi però l’album prende il largo mette da parte la voglia di rivalsa e affronta un viaggio più cupo e sospeso, con una serie di pezzi difficili da inquadrare. Con la strumentale Withdrawl le cose iniziano a farsi minacciose, mentre la più irrequieta The Past, pur negando definitivamente il ritorno alle vecchie cose pesanti dei Death Angel, mostra la voglia di andare in territori non meno insidiosi e duri. Non dove osano le aquile da classifica. Le due ballad, Bringer e Wonder sono ancora oggi bellissime.
Non so se ora il gruppo consideri The Organization come parte integrante del camino discografico dei Death Angel. Probabilmente salteranno a piedi pari il periodo creativo dei due album, quando devono pescare i classici e infilarli nelle set list dal vivo. Il pubblico non penso abbia da ridire a riguardo. Credo non ci sia là fuori una platea speranzosa di una reunion che omaggi questo periodo così strano e per certi versi molto romantico della band.