Sarà solo una mia impressione e non posso provarlo, ma la progenie dei gruppi ispirati a Mercyful Fate/King Diamond è spuntata tutta negli ultimi quindici anni. Ovviamente l’influenza era già in circolo ovunque, è chiaro, ma band così smaccatamente ispirate al sound di Sherman/Denner e dei progetti solisti del Re Diamante, mi sembrano proliferare solo di recente. Penso agli Attic, per esempio. E ovviamente ai Portrait. Già il nome tradisce il legame sotteso con il vecchio King, ma basta sentirli dieci secondi per capire quanto siano debitori della blasfema congerie danese. Però non è tutto qui, sia chiaro e il sesto album The Host lo dimostra chiaramente. Loro copiano anche altri gruppi metal classici.
Si tratta di un concept, un lavoro molto ambizioso di oltre settanta minuti, in cui i Portrait raccontano una storia di fedi perdute, satanismo, amore e morte ispirata a fatti reali ma rimescolati in un flusso creativo incatenato alle solite zone fantastiche ormai trivellate da quarant’anni di escursioni narrative metallare. In generale la vicenda di The Host ricorda, non tanto lo stile imbonitore e baracconesco di King Diamond quanto quello più romantico e sofferto di Dani Filth (che in termini di romanzi horror in musica è l’erede del danese).
E qui andiamo al punto. I Portrait quando pistano duro ricordano principalmente i Mercyful Fate e va bene, ma anche gli Helloween dei tempi di Kai Hansen, poi gli Iron Maiden anni 90 per i ritornelli da stadio e i Black Sabbath di Heaven And Hell per i momenti più sfaccettati. One Last Kiss per dire, è uno sfacciato rifacimento di Children Of The Sea nell’incipit.
Dai, andiamo al sodo. Vi dico cosa mi piace e cosa non mi piace di The Host e dei Portrait in generale. Partiamo dalle cose buone, hanno una capacità di tessere trame melodiche sorprendenti. Permettetemi di citare il cantato di chiusura in The Sacrament, il ritornello di From The Urn e soprattutto l’intero lavoro melodico di Die In My Heart. Sono bravissimi, il cantante Per Lengstedt in particolare è una vera bestia. Forse diventa dura per gli ascoltatori sopportarne per più di un’ora i trapezismi tonsillari, ma devo ammettere che certi i funanbolismi melodici di The Blood Covenant e The Passion Of Sophia fanno venire quasi le vertigini, ed è una ficata.
Ora andiamo alla cosa negativa. I Portrait sanno troppo, solo di metal. Vedete, il punto è che le vecchie band a cui loro si rifanno, non sapevano SOLO di metallo. Dentro quelle canzoni che oggi sono i modelli su cui si basa l’alfabeto heavy, le fonti d’ispirazione erano più ampie e questo offriva al sound di quei gruppi qualcosa di più grande, sconfinato, capite? Convertivano la follia e l’irrequietezza del mondo alle solide e inflessibili rigidità della siderurgia sonora. Oggi band metal come i Portrait prendono il vecchio oro e sperano di fonderlo e rimodellarlo, ma quando rimiriamo il risultato, percepiamo un luccicore più flebile, una opacità avvilente.
I Portrait respirano metal, cagano metal e ciò che esprimono nelle loro lunghe costruzioni epiche e aggressive, è il solito, asfittico, heavy metal. Capisco che non è per tutti questa osservazione. Ci sarà gente che sarà felice di questa cosa, ma per me il genere raggiunge risultati notevoli solo quando sa ANCHE di qualcos’altro. Come per esempio capita ai Portrait stessi con il brano Die In My Heart. Ascoltate quel pezzo con attenzione. Non c’è solo il cazzo di heavy metal lì dentro, ma anche il post-punk. Ed è per questo che mi colpisce e mi stende, cazzo. Si tratta di un brano grandioso.
Se invece andate su un titolo pur molto articolato e inquieto come The Passion Of Sophia, in fondo è un avvicendarsi di patterns stranoti. C’è un po’ di Marcyful Fate, un pezzetto di Marduk, una parentesi Black Sabbath, poi un assalto alla Iron Maiden e ancora altre band che sfilano nell’arrembaggio di citazioni e rimescolamenti sprofondati sempre nel tugurio del metal classico. In Die My Heart invece la melodia centrale spiazza, suona quasi sghemba, è selvaggia come certe cose dei Sisters Of Mercy. Non stiamo parlando di una distanza lontanissima dal metal, ma è già qualcosa. I Sisters sono giganteschi.
La magia dei grandi maestri di questo genere non la si trova rinchiusi nella loro officina. Loro la trascinavano dentro di essa e la piegavano alle volontà del fabbro. Perdonate se sono retorico ma permettete che vi dica una cosa. Fateci caso, il metal di oggi non corrisponde più ad alcun luogo specifico. Se riandate a Birmingham o Altenessen, vi accorgerete che la musica di quei gruppi, Sabbath o Kreator, era correlata al dolore e alla frustrazione di luoghi molto specifici e impaludati in crisi assassine sul piano economico e famigliare.
Oggi da cosa giunge il metal dei Portrait? Sembra più da uno scaffale di vinili, dalle camerette sicure piene di poster e di chitarre, programmi di registrazione e libri sulla storia del metal. Dal metal nasce solo altro metal, mi spiego? Solo dell’altro metal che se non ci fosse e se dal 2005 dovessimo accontentarci solo dei dischi usciti in precedenza, non cambierebbe assolutamente nulla. Ecco cosa manca alle band di oggi. Sono grandi interpreti, rielaborano sapientemente cose che hanno studiato in dettaglio, ma senza soffiarci dentro i propri casini, i loro cazzo di sogni.
Cosa pensate che sognasse Steve Harris quando suonava con i Maiden nei localacci d’Inghilterra? Probabilmente quello che ha realizzato, grandissimo, meraviglioso. Cosa sognano i Portrait oggi? Di avere soldi a sufficienza per vivere e fare dischi nello stile dei vecchi grandi del metal. Oh, beh. Altro che le rivoluzioni e le scoperte delle Americhe.
Quando si sogna qualcosa, bisogna stare attenti. No, non è la solita solfa che se poi quella cosa si avvera e non la si desiderava davvero la vita diventa un incubo. Voglio dire che bisogna fare attenzione a desiderare qualcosa che sia irrealizzabile e cercare di raggiungerla, anche se si sa bene di non riuscirci. Non importa. Di sicuro, si planerà più avanti di quanto si immagini. Se invece si sogna ciò che già si ha, sarà tutto molto più modesto e morirà tutto molto presto. Andate in pace.