In.Si.Dia – Oltre trent’anni di Istinto e Rabbia

Curioso che il primo impatto, per molti di quelli che li conobbero ai tempi di Istinto e Rabbia, non fu grazie alle riviste specializzate. Certo, fu HM a esaltarli due anni prima del successo, nominando il loro No Compromises miglior demo dell’anno, ma vogliamo parlare dello strapotere mediatico di HM? No, nel 1993, anno magico, furono la TV generalista del pomeriggio o magari Tutto lasciato nel cesso di casa da quella sciapa di vostra sorella a farvi conoscere gli In.Si.Dia. Già, Tutto, il magazine generalista che negli anni 90 andava forte tra i ggggiovani. Ve lo ricordate?

Io li scoprii su Videomusic, nella trasmissione Roxy Bar di Red Ronnie. L’impressione iniziale, considerando che ascoltavo il thrash americano, fu di divertita perplessità. I suoni erano simili a quelli della Bay Area, il cantato di Fabio Lorini era in stile Hetfield e Zetro Souza: grintoso, incazzato e quasi privo di melodia, ma i testi… i testi erano in Italiano???

Era un Italiano, sì, adattato alla metrica degli americani, quindi se Riccardo Yard Panni diceva “Me” intendendo “io”, lo pronunciava “Mea”, un po’ come le band straniere quando dicevano Me (che poi si dovrebbe leggere, come in veneto “mi”).

In pratica gli In.Si.Dia cantavano nella mia lingua, ma se chiudevi gli occhi e ti distaccavi dal significato che ti arrivava al cervello, in fondo sembrava quasi slang. Era un po’ quello che facevano i gruppi beat negli anni 60 e che fanno certi giovani impiastri della Trap nostrana. Alcuni tipo i Primitive avevano il cantante anglofono, ma certi erano italiani, come i Corvi. Angelo Ravasini intonava le liriche de Il ragazzo di strada assumendo quella calata alla Stanlio e Ollio che suggeriva l’effetto West Coast all’orecchio provinciale degli italici, ma già avvezzo alle metriche originali dei gruppi esotici degli States o britanni vari.

Però pensai anche “che ficata”, un gruppo italiano che suona come i Metallica e canta cose nella mia lingua. Riesco a capirli. E cosa dicono?

Ehm. Boh…

Non è che riuscissi a seguire molto i discorsi di Lorini. Mi distraevano i riff, le accelerazioni. Non avevo bisogno di parole, in fondo. Erano quasi di troppo. Io se cantavo i pezzi dei Metallica lo facevo con il mio wanageno e mi bastava. La voce era un suono come gli altri. Tutta la musica dei gruppi heavy thrash era botta di energia e mi invadeva come lo dimonio. Quello io volevo, era la forza, la grinta, il bisogno di rivalsa contro i compagni di scuola, i professori, i genitori, i bulli che mi aspettavano fuori dal bar. Non c’era bisogno che qualcuno mi dicesse cosa pensare o gridare. Mi bastava mettere a tutto volume un brano qualsiasi dei Testament o degli Iron Maiden e smettevo di pensare ai cazzi miei, mi dopavo col metal e crescevo fino a sentirmi una specie di gigante inarrestabile, un eroe stile Mad Max, un figo in un mondo di merda e via così.

Dopo molti anni ho scoperto sia che, come dicono gli stessi In.Si.Dia in una intervista retrospettiva su Classix Metal (realizzata proprio da me, Tony Aramini e non mi ricordo chi altri), se a 15 anni avessi saputo di cosa parlavano certe canzoni degli Iron Maiden, quello che dicevano i Priest o i Manowar, avrei smesso di sentirmi così galvanizzato a urlare certe strofe; inoltre verso i venticinque anni mi sono invaghito dei cantautori italiani, ho esplorato le macerie del rock italiano anni 70, 80 e 90 e infine mi sono interrogato sul perché, in quasi cinque decadi, non ci sia stata una evoluzione possibile tra la nostra lingua e il metal.

Ho riesaminato con orecchio clinico i pochi esempi riconosciuti: il primo EP degli Strana Officina, il disco post-Vanadium di Pino Scotto e poi quei gruppi alternative rock con qualcosa di “metallico”: Timoria, Litfiba, Il teatro degli orrori… persino Enrico Ruggieri tra gli anni 80 e i 90. Ho sempre avuto la sensazione che oltre certe velocità e su alcune dinamiche d’accompagnamento più esasperate, qualcosa tra l’idioma e la musica non abbia mai funzionato davvero. Mai. Tranne i Malnàtt, ma sono stanco di parlarvene, tanto non mi ascoltate. C’è un mio libro là fuori in cui racconto la loro storia e spiego come mai solo loro siano riusciti nel miracolo di fare metal in Italiano e non essere ridicoli.

Ho anche riascoltato Istinto e Rabbia sotto quest’ottica, dopo molti anni che non lo facevo, trovandolo ahimé pessimo da quel punto di vista, a tratti imbarazzante.

Perché ne sto parlando ora?

Perché risentendolo, dopo un’altra pausa di qualche tempo e senza un motivo preciso, noto delle cose e voglio condividerle con voi. Sicuramente era un esperimento audace. Dei ragazzini cercarono di esprimere il proprio disagio, il dolore, la paura, la fragilità, usando la musica che amavano di più. Era anche una storia toccante. Tutti i gruppi metal di quegli anni, iniziando a darci dentro, accarezzavano il desiderio di raggiungere i traguardi dei Metallica e dei Maiden. Andatelo a chiedere ai Broken Glazz, per dire.

Quei quattro thrasher coronarono un sogno di successo insperato. Firmarono con una grande etichetta, videro all’orizzonte una prospettiva di fama nazionale, pur stando ancora con i piedi nelle umide coltri delle cantine bresciane. Fu una necessità genuina da parte loro, cantare in italiano. Non si trattò di un’operazione a tavolino, come pensano da molti anni parecchi metallari che li hanno sempre snobbati.

Fu Omar Pedrini, appassionato di metal e già sotto contratto con la Polydor assieme ai Timoria, che volle essere il loro manager e li guidò in un possibile exploit commerciale che lui aveva annusato. Nel 1991-93 i Metallica avevano avuto un successo enorme anche da noi. In Italia i metallari erano tanti, bastava guardare l’afflusso ai Monsters Of Rock. Perché non provarci con un gruppo che rappresentasse la categoria nell’ambito delle etichette mainstream? Poteva funzionare.

Non funzionò.

Gli In.Si.Dia fecero due dischi prima di implodere, sfancularsi e congelare temporaneamente la loro storia. Si trovarono a un bivio. C’era chi voleva evolversi (commercializzarsi e magari tentare San Remo?) e chi non se la sentiva di cambiare una virgola. Dal braccio di ferro uscirono tutti sconfitti.

Sia con Istinto e Rabbia che con Guarda dentro te i segnali incoraggianti c’erano, ma se stai con la Polydor, da qualche parte devi orientarti. Non puoi semplicemente star lì in mezzo ai soldi e fare il tuo piccolo grande metal. Certo, non fu il pubblico metal ad aiutarli e sostenerli. Oggi molti li hanno rivalutati, ma negli anni 90, c’era tanta diffidenza verso gli In.Si.Dia. Firmare per una major, da italiani, senza fare una gavetta di vent’anni a colpi di demo e sgroppate di tour della latrina, non stava bene. Anche gli Skanners subirono lo stesso ostracismo a quanto mi risulta.

Inoltre, gli In.Si.Dia ebbero una notevole esposizione oltre la cortina d’acciaio, ma il pubblico che si avvicinò, conoscendo i Metallica, era quello vago e passivo che alternava Nothing Else Matters, ai Nirvana o a Masini, e non era così affamato di quel suono, non era addentro alla faccenda in cui la band si era culturalmente plasmata, per poterla trovare così interessante di per sé. Mancavano i tormentoni, le hit, i pezzi irresistibili capaci di tener desta l’attenzione.

Non c’era una Senza vento all’interno di Istinto e Rabbia o una El Diablo. La ballad Il tempo aveva un giro canonico pop ma era fin troppo intricata e aggressiva per piacere alle ragazzine. Yard non possedeva l’estensione del bel canto. E all’Italia piaceva cantare, non ruggire. Le Vibrazioni erano tostissimi, ma senza Giuuuliaaaa sarebbero rimasti nelle birrerie a fare le cover degli Zeppelin. E io questo lo rispetto, però bisogna capire cosa si desidera veramente fare. Parla parla non diventò mai un pezzo da far cantare sui palchi itineranti del Karaoke di Fiorello.

Mi dispiace ma se firmi con la Polydor è inutile che poi ti mostri integerrimo e puro e, col pubblico delle grandi occasioni, tipo il concerto di spalla ai Fight, disertato da tutti i metallari d’Italia nel 1993, annichilisci i giornalisti in sala con la tua brutalità, al fine di mostrare che tu sei dentro i circuiti che contano ma non ti svendi.

Tolte le ragioni che impedirono al gruppo bresciano di sfondare davvero, oggi mi rendo conto che gli In.Si.Dia esprimevano, proprio grazie ai testi su Istinto e Rabbia, la fragilità e lo sgomento che accomunava l’intero pubblico metallaro adolescente della mia generazione, nei confronti del mondo italiano, catodico, straniante in cui stavano crescendo. Il timore di essere soli, senza un futuro, la diffidenza verso le istituzioni politiche o religiose, il bisogno di fuggire verso contesti culturali diversi, tra gli scenari di purezza dei nativi americani (Satanka) e il sogno della baia, con i suoi gruppi incazzati e che tiravano a mille la propria esistenza in giro per gli States (Solo solitudine).

Questo mi piace. Non sono i Death SS o i grandi numi tutelari dell’underground italiano dei primi anni 90 a raccontarmi di come stava dentro uno come me, ma i testi gridati da Lorini s’, con tutte le difficoltà di ciò che aveva deciso di fare, contro ogni tendenza.