Chelsea Wolfe e la resilienza liminale del synth-bop

Sarò sincero (è la prerogativa di questo blog), ogni volta che scopro essere uscito un nuovo disco di Chelsea Wolfe o di Ishanh, mi sale un senso di stanchezza dal profondo dell’anima. Sono due artisti veri, realizzano dischi in modo genuino, quasi sofferto, sono pieni di ispirazione. Lo dico istintivamente, perché di solito me ne tengo alla larga. E la cosa è pazzesca, se penso che l’arte così abbondante nei lavori di questi due musicisti, vado a cercarla con il lanternino nelle copiose e vacue produzioni black/death/power/speed e traditional metal che si riversano dal web ogni giorno (e ogni notte, mentre io e voi dormiamo, altri album metal escono dall’abisso del nulla e si impigliano nella rete, in attesa che li raggiungiamo per colazione).

Dovrei fiondarmi sulla genuinità e l’autenticità di Chelsea Wolfe. Lei è una grande artista, riceve circa l’ottanta per cento di recensioni positive in tutti gli aggregatori che ci sono in giro. Sempre. Le sue canzoni sono così grondanti di vissuto, così nutrite di visioni eteriche, esoteriche, erotiche, magmatiche, al punto che la mia scrittura prolifera di aggettivi stravaganti ancora prima che io abbia deciso di darci dentro.

La verità però è questa. Chelsea Wolfe è bella, brava, mai banale, e talvolta mi ha pure ispirato delle scelte decisive, ma quando l’ascolto, lei mi chiede il doppio di quello che ha da offrirmi. Ogni frammento di tastiera, ogni barbaglio campionato, tutti i sussurri, i muggiti da sirena, le melodie più stentate e gli epifanici ritornelli (che non c’è verso, sono sempre epifanici) reclama la mia attenzione e la mia apertura mentale. Non posso concedermi di alzare le spalle al primo ascolto e dirmi semplicemente che questa roba non sa di niente o che pacificamente non fa per me. Certo che fa per me, è scura, dolorosa, mistica, stregonesca, cimiteriale, la Morticia Addams delle Lana Del Rey, quindi no, io devo capirla, devo entrarci dentro, ha bisogno della mia scrittura più ispirata per raggiungere il proprio pubblico perfetto. Per riuscire a decantare la specialità luciferina di Chelsea mi ci vuole pazienza, tempo, ancora pazienza e grande sforzo di cuore e mente.

Non posso distrarmi a metà canzone e ammettere che la signora Chelsea, insieme al suo ensemble di fedeli collaboratori (ma che dico collaboratori, stilisti tessitori dell’arrangiamento darkettone), non sia ogni volta così interessante, che forse quel deterinato brano, di tanto in tanto, insomma, sia un ehem un riempitivo…

Chi si prende la responsabilità di dire che Chelsea Wolfe è anche noiosa, piatta, banale, una cilecca? A quanto pare nessuno. Sento già il deep-web che alza il dito sporco di merda contro di me: “quali riempitivi, nei dischi della Wolfe non esiste niente che abbia una parvenza pratica, è tutto metafisico, trascendente, sublime e per dirlo in una parola sola, immateriale. I suoi pezzi sono spettri e in quanto tali, nessuno li più giudicare.

Forse è così e io sono solo un recensore di merda, metallaro per giunta, che si ritrova a gestire un personaggio tanto complesso e sofisticato, solo perché nelle sue traversie compositive, la Wolfe ha imboccato di sguincio anche la via del doom, del drone e del dark metal, ma di fatto, io non sono convinto che questo nuovo She Reaches Out to She Reaches Out to She sia un disco definitivo, un capolavoro che segnerà chissà cosa. Penso sia uno dei tanti lavori di Chelsea Wolfe e che tra due anni nessuno ne parlerà più.

Chi la segue dalle origini assicura che non è mai stata così coraggiosa, randomica, sperimentale, ma per quel che mi riguarda il disco è una passeggiata virtuale nei boschi delle fiere, un volo planante nella sicurezza vasta dei cieli stellati, su una città invasa da demoni. E mentre l’angelo nero Chelsea tiene stretto il suo deltaplano stilizzato da carro funebre, osserva quei mostri defecare nelle bocche dei cadaveri degli umani e nulla si muove nel suo cuore travagliato.

Guarda questo impero
Mentre brucia e si dissipa
Infestato, in fiamme
Sulle ali che creiamo

Giuro che la mia visione del deltaplano e dei demoni che distruggono la città l’ho immaginato e scritto prima di scoprire i versi che la Wolfe ha infilato in uno dei suoi pezzi. Il brano si chiama Dusk e guarda caso è uno dei due che ho gradito sul serio, senza guadagnarmi con fatica il mio appagamento.

L’altro pezzo è The Liminal, che tra l’altro è una parola infettiva di questi tempi, la trovo sempre più spesso, da Pitchfork a Metalitalia. Liminale: sembra l’aggettivo destinato a scalzare dal trono dei nuovi luoghi comuni recensori il Re-siliente, indiscusso sovrano dal 2017.

Dicevo, The Liminal è un bel pezzo. Mi ricorda le cose più leggere e plumbee di Violator dei Depeche Mode, che ancora coincidenza, è uno dei dichiarati dischi di riferimento della Wolfe per la realizzazione di She Reaches…