Gli High On Fire e la disconnessione dei dischi non brutti

Non esiste un brutto disco degli High On Fire! Così scrivono i tipi di Ungry Metal Guy, sito che ammette di non amarli particolarmente. Eppure è così, mi garantisce chi li conosce da tanti anni: hanno fatto sempre lavori di buon livello. E come loro, aggiungerei io, decine di altre band medio-grandi. Nessuno che abbia la decenza di restituirci qualcosa di decisamente brutto, di orrido, di vergognoso, imbarazzante e infamante. Non c’è niente da fare, davvero. A me mancano le ciofeche, a voi no? Oramai per trovarne qualcuna davvero folgorante devo buttarmi sul black metal cileno o sull’hard rock peruviano.

Ma nel metallone che conta, non se ne rimediano praticamente più dopo LuLu dei Metallica, Illud Divinum Insanus dei Morbid Angel e l’irrinunciabile Catharsis dei Machine Head. Mancano perché nessuno osa un salto vero, col rischio di rovinare nell’abisso e magari, non riemergere più.

I gruppi confezionano dischi in cui gli estremi sono toccati solo per modo di dire. Gli High On Fire in questo Cometh The Storm sono heavy, fighi, brutti e cattivi, ma come ci si aspetterebbe da loro, senza che rischino di sorprenderci o deluderci. Lo spessore di catarro che Pike gargarizza nei momenti più pesanti delle sue elegie pestilenziali e oscurissime, sono i consueti ruggiti di Pike. I riff sono sporchi, grezzi e incalzanti con stiloso garbo sabbathiano. Quello che mi domando però è perché non provare un contraddittorio e perdere in gloria con Tony Iommi, invece di imitarlo come uno scolaro devoto e un po’ cretino.

Ma lo so, è inutile portare avanti certi discorsi. Cometh The Storm è un buon album, piacerà ai fans degli High On Fire e non  dirà assolutamente nulla a chi non li ha mai digeriti, apprezzati, seguiti. Tutto resta come era e sarà. Ma non vi uccide di noia questa stasi a compartimenti stagni?

Non fraintendete, l’ho ascoltato con discreto piacere, l’album degli High On Fire. La prima volta è stato un coso abbastanza monotono e prevedibile, tranne la parentesi di folk indiano nel mezzo Karanlik Yol. Quello era impossibile non notarlo. Poi, al secondo e terzo ascolto ho iniziato a carpire sul serio qualche altro frammento. 1) La melodia portante di Hunting Shadows; 2) il fraseggio arabeggiante a un certo punto dell’iniziale Lambsbread; 3) e l’approccio un po’ elettro-soft della title-track, che forse per la prima volta dopo non so quanto tempo, mi capita di apprezzare davvero più di tutte le altre canzoni. Ho notato anche la conclusiva Darker Fleece ma solo perché dura più delle altre, è l’ultima ed è la cosa più doom del disco. Non c’è altro da trascrivere per i posteri.

Al quarto  e quinto ascolto, invece di schiudersi ancora di più, l’album sembra essersi risentito, deluso dalla mia incapacità di penetrarlo e orientarmi al suo interno, così, ecco che mi si è ingarbugliato di nuovo. Ho ricominciato a sentirmi tagliato fuori da quella melassa di riff stoner-doom, urla e ghirigori hard rock. Mi ha rifiutato, temo. Probabilmente ha ragione. Me lo merito ma cosa posso farci?

Avrei preferito che gli High On Fire registrassero un disco ultra-melodico. Una roba in stile Lemmy del periodo 1916/March Or Die. Non so, un pochino mi ci hanno fatto pensare con Hunting Shadows, con Pike che canta una linea accattivante dal fondo di un barattolo di marmellata; è fica, niente di speciale ma tira bene. Ah poi c’è pure Sol’s Golden Curse. Non so bene come commentarla. Pensate che l’ho ascoltato, questo pezzo, almeno sei volte, prima di accorgermi che il telefono non era connesso e il mio spotify lo ripeteva a oltranza. Qualcosa vorrà dire.