Jar Of Flies l‘ho sentito anni dopo che uscì. Conoscevo No Excuse per via del video che passavano alla TV e il pezzo mi piaceva, ma se devo essere sincero, la mia fascinazione per gli Alice In Chains già mi era passata, Non ascoltavo più Dirt da un po’ e iniziavo a stancarmi di tutta quella roba di Seattle. Dopo anni mi sono ridestato da un torpore strano e ho realizzato che, cazzo, se avevo avuto qualcosa di fortunato nella mia vita era stato veder nascere, crescere e morire gli Alice In Chains, uno degli ultimi grandi gruppi della Storia del rock. Quelli veri, fatti di grandi canzoni e di gente che si ammazza con le proprie mani perpetuando il credo dannatista che l’autodistruzione abbia qualcosa di poetico e di salvifico.
Sentendo i pezzi di Jar Of Flies è difficile contestare una roba del genere. Layne Staley si stava ammazzando già da anni. Tentava di riabilitarsi e poi ci ricascava peggio di prima. Registrarlo non fu facile e ancora meno l’omonimo, il Tripod, un anno dopo. Entrambi i dischi finirono in cima alle classifiche, ma la band non poté andare in tour per lo stato di salute del loro frontman. Questa è cosa risaputa, la scrivo perché forse c’è bisogno di fare un po’ il punto della situazione. A distanza di anni e anni, dopo la morte schifosa di Staley, solo nel suo cazzo di appartamento, nel fetore e nell’immondizia alta così, ci restano le sue lettere confessionali in rima su come stava cercando di impedirlo, senza riuscirci, ovviamente su musiche molto ispirate del talentuoso Jerry Cantrell.
Difficile dire che non sia stata la droga l’ingrediente segreto alla base degli Alice In Chains. Eppure è vero quel che sostengono i superstiti della band: nonostante ci fosse molta oscurità nelle loro canzoni, c’era anche spazio per un po’ di luce. Ed è tutta luce il brano strumentale di Jar Of Flies, Whale & Wasp, ma è una luce malata, assolutamente priva di conforto. Mi fa pensare a quella che vidi un giorno, all’alba, dopo aver dormito in auto, al termine di una notte difficile, piena di sbagli e di diavoli che mi bussavano con un dito unghiuto sporco di merda sul finestrino. Tic tic… tic tic tic…
Aprii gli occhi e alzai la testa, oltre il vetro della macchina c’era il bianco malaticcio di un primo mattino di ottobre. Non mi confortò, anzi. Desiderai non essermi svegliato ancora in un mondo che in quella luce severa dichiarava di essere deluso da me, Gli arpeggi e le melodie di Cantrell me lo restituiscono come una sberla in faccia, quel mattino, ogni volta. Mi ricordano quanto sono stato malsano un tempo, immerso in uno schifo che avrebbe potuto ammazzarmi.
Scrivevo un sacco di versi in quei giorni, roba pesante, piena di orrore, disperazione e richieste d’aiuto molto dirette. Oggi li rileggo e li trovo abbastanza una merda. Sono poesiole di un giovane depresso, ma senza un briciolo del talento di Layne Staley. E allora penso due cose. La prima è che non è la droga, il mal di vivere, che producono una crescita di talento fino a livelli massimi degli Alice In Chains. La seconda è una verità ancora più dura: non basta scrivere bellissime confessioni in rima, per cambiare o per salvarsi il culo e probabilmente, per salvare quello di qualcun altro.
Vorrei credere che Layne Staley e Jerry Cantrell, raccontando in quell’EP, le ultime puntate di una battaglia che stavano perdendo insieme: il primo con la droga e il secondo con l’amico che si drogava e non c’era verso di aiutarlo, abbiano salvato qualche altro poveraccio, folgorato dalle loro meravigliose canzoni tristi e un po’ malaticce, come Nutshell o la dolcissima Don’t Follow, ma penso che probabilmente, con l’esempio che diedero e che i giornali tradussero male alle masse, abbiano favorito le cattive intenzioni di tanti giovani.
Mother said come home
Father said come home
Sisters said come home
So my friends said come homeI said
Let me be, I’m alright
Can’t you see, I’m just fine
Little skinny, okay
I’m asleep anyway (da Swing On This degli Alice In Chains, ultimo brano di Jar Of Flies)
Nikki Sixx racconta nei suoi Heroine Diaries, che per lui era pacifico bere e drogarsi, poiché tutti i suoi miti della musica lo facevano o l’avevano fatto fino a schiattare. Gli sembrava che si dovesse passare attraverso quel tipo di esperienze per diventare davvero dei grandi del rock e che per esserlo sul serio, era necessario accettare di cadere dal filo su cui era necessario correre più che si potesse. Quanta gente avrà chiuso gli occhi prima di svanire nella luce di una delle prime mattine fredde d’autunno, accompagnata dall’unplugged degli Alice In Chains?
C’era così tanta bellezza in quel sudiciume esistenziale fatto di droghe pesanti e di solitudine, di immondizia sul pavimento e di denti marci. C’era una specie di poesia eroica sotto una pioggia di siringhe. Un giorno il bassista Mike Inez, che aveva sostituito l’altro martire degli Alice In Chains, Mike Starr, una sera, fuori dagli studi di registrazione vide andarsene Staley sotto una tempesta, lento e solo. Spariva in fondo alla strada. In quel momento lui ebbe la sensazione che avesse un gran bisogno di essere salvato, ma non lo chiamò, non gli andò dietro. Lasciò che si dileguasse. Tutti aspettavano la telefonata e anche dopo che la band si sciolse, svilupparono una fobia del telefono. Fino al 2002, quando la peggior paura divenne realtà e li lasciò in pace.
Non voglio fare alcun moralismo. Sto solo dicendo che l’esempio di Staley e la bellezza di alcune canzoni dell’EP Jar Of Flies non servono a un cazzo, se sei davvero incasinato. L’ho riascoltato diverse volte pensando che è molto bello per essere un mezzo disco, scritto in una settimana partendo da zero e in circostanze a dir poco faticose, ma che non è completamente memorabile. Sap gli è superiore. Però è la dimostrazione che ancora il gruppo riusciva a creare musica di alto livello, nonostante il casino che se li stava mangiando vivi.
Probabilmente non posso evitare di pensare a quello che stava succedendo e che sarebbe successo. Nessuno può. Quelle canzoni sono fottute. Sarebbe interessante farle ascoltare a qualcuno che non sa chi siano gli Alice In Chains e domandargli cosa ci sente e come si sente ad ascoltare pezzi come Nutshell. Se ha voglia di fare una passeggiata, dopo l’ascolto o se magari preferisce accendere la TV e spararsi episodi dei Griffin a ruota. Io mi ritrovo con una gran malinconia addosso e vorrei solo mettermi a letto e spegnere ogni luce fino alla prossima settimana.
Dostoevskij fa dire a un personaggio de I Demoni che la bellezza salverà il mondo, nonostante sia preda dei nichilisti, della violenza e abbandonato da dio. A me questa cosa non ha mai convinto. La bellezza è necessaria all’uomo, ma non è sufficiente a salvare nessuno. La bellezza è piuttosto il frutto del male che ci affligge e che ci spinge verso l’oscurità, passo dopo passo, dando le spalle a una luce che non ha nulla per noi, bianca, severa, fredda come i sensi di colpa negli occhi di mia madre.