Criminalmente sottovalutati ai tempi e oggi praticamente caduti nell’oblio, i Rough Silk, “teteschi di Cermania”, riescono a incarnare nel loro nome perfettamente questo equilibrio. Ruvidezza e al contempo classe, compito non certo agevole né facile, ma conquistato con fermezza. Il loro gioiello più lucente è il terzo album, Circle Of Pain del 1996, inciso per la Massacre, quando ancora era una label indipendente rilevante. Un disco, il terzo, formalmente ineccepibile, con la sola pecca di essere uscito quando una certa sovrabbondanza di progressive metal band stavano inondando la scena, dovendosi spartire la fetta di visibilità, che la finestra temporale avrebbe fatto sparire in pochissimo tempo. Oggi un disco così sarebbe una fiamma ardente nel marasma del nulla, ma ieri no, le torce accese erano tante e ben illuminanti.
Questa perfezione stilistica è frutto di una costante e continua evoluzione e rifinitura dello stile, avviata nei due dischi precedenti, che pur buoni, non avevano messo a fuoco tutto il potenziale. In un’ora di musica la band condensa in modo incredibilmente bilanciato i Queen, i Savatage, il thrash metal e l’heavy classico, con un cantante, Jann Barnett, che ricorda una versione più metallica di Freddie Mercury, ereditandone il pathos emotivo e la capacità di creare dei climax eccellenti.
Trovo che la loro immensa bravura stia in almeno tre elementi: il sapere usare i contrasti armonici in modo dinamico, con l’alternanza sapiente di tensione e dolcezza, tra piano e voce e le sezioni più metalliche ben congegnate; l’uso elegante ed efficace della melodia, sia nelle parti vocali che nelle strofe e ritornelli ed infine l’uso di strumenti inusuali nel power prog, come l’Hammond, la steel guitar, la fisarmonica e l’armonica.
In questo disco la palette sonora è utilizzata in toto, andando persino a pescare nel jazz (nella title track), nel gothic e nell’ambient, amalgama vincente e ben incastonata nella struttura più pesante, che pulsa ferocemente nell’ossatura e nello scheletro degli arrangiamenti.
La scaletta è molto fluida e varia, tenendo le orecchie dell’ascoltatore incollate ai pezzi, forieri di variazioni e di alternanze molto accattivanti.
Il fiore all’occhiello dei Rough Silk invero è il tastierista, cantante e polistrumentista Ferdy Doernberg, un musicista dalle doti tecniche e compositive sopra la media, versatile, eclettico e dal gusto raffinatissimo.
Non a caso nella girandola folle di cambi di line up della band, che continuerà a produrre musica, sempre di buon livello ma mai come in questo album, è il cardine fisso, la colonna portante dell’intero progetto.
Lo vedremo protagonista in tante altre formazioni, sia come ospite che come membro ufficiale, tra cui l’ormai bolso e stanco Martufello alemanno, ovvero Axel Rudi Pell, Taraxacum ed Eden’s Curse, nonché flirtare con insistenza nell’entourage Helloween, partecipando ai lavori solisti di Roland Grapow e negli Shock Machine di Markus Grosskopf.
Ménage reiterato anche come tastierista live per i Gamma Ray in alcune occasioni nel 1999. Formalmente i Rough Silk non si sono mai sciolti, pubblicando con regolarità fino al 2018, via via con etichette sempre più piccole e con un alone di “oblio” appiccicato ai vestiti. Ritengo che il meglio l’abbiano già dato, la loro chance migliore e irripetibile di Circle Of Pain poteva e doveva farli salire nella scala gerarchica, ma la storia ha scelto altri piani per loro.
Nella solita solfa di “losers”, piccole formazioni talentuose e gusti del pubblico ammaestrati e mono direzionali, i Rough Silk meritano di essere ripresi in mano, per capire meglio cosa ci si era perso oppure cosa rimpiangere.
Marco Grosso