Con la globalizzazione, per un gruppo metal la partita si gioca potenzialmente alla pari con gli altri paesi. In Italia però c’è un fattore “P” che castra tante band. P sta per “Proclami”. Nel nostro DNA nazionale risiede purtroppo una caratteristica a mio avviso negativa; la tendenza di molti a chiacchierare troppo per poi produrre qualcosa di scarso valore. Comunicati stampa roboanti, manifesti programmatici solenni, dichiarazioni melodrammatiche e grandiose. La solita montagna che poi partorisce un sorcio microscopico. Poi ci sono altre realtà, che per carattere, umiltà o per la dedizione ai fatti più che per le parole, sfornano cose grandiose che non sempre arrivano a quella grossa fetta di pubblico che bada poco alla sostanza. Pongo in questa categoria i Brvmak, da Frosinone, che nel 2018, molto in sordina e purtroppo snobbati, hanno inciso un vero gioiello di death metal progressivo.
Si erano affidati alla misconosciuta label romena Sleaszy Rider Records, che non è riuscita a valorizzare un prodotto sulla carta davvero dirompente.
I Brvmak sono squisitamente tra i pochi nel nostro paese ad aver assimilato al meglio la lezione di Cynic, Atheist, Pestilence, ultimi Death e tutto il movimento che unisce il progressive al death metal, rileggendolo davvero con un alfabeto nuovo. Lo fa con una caratteristica tutta italiana; il gusto innato per la musica classica, quella più drammatica, sia contemporanea che antica, il cui humus è profondamente spirituale e profondo, un soffio divino che irrora le note di assoluto.
Non a caso, alle vocals in un pezzo ha partecipato Paul Masvidal; e questo dovrebbe già dire moltissimo di In Nomine Patris. L’atmosfera generale del disco è mistica, oscura, pesante, rimescolando tante parti meccanicamente diverse per assemblarle in un unico macchinario letale. La maggior parte delle canzoni presenta una struttura classica di strofa-ritornello, ma con l’aggiunta di intermezzi strumentali e variazioni tematiche che ampliano la durata delle tracce senza appesantirle.
Le transizioni tra i vari segmenti degli arrangiamenti sono abilmente curate. I passaggi da sezioni più melodiche a momenti di pura intensità metal si integrano in modo coerente. Il valore aggiunto risiede laddove le tracce incorporano arrangiamenti orchestrali che conferiscono un’epicità e una grandiosità al sound complessivo.
L’inserimento di soundscapes ambient imbastiscono trame e ponti tra le sezioni, arricchendo ulteriormente l’esperienza d’ascolto. Le chitarre sferzano le linee armoniche con una miscela di riff intricati e assoli decisamente melodici, con variazioni multiple nel tempo che offrono una sensazione di dinamismo e costruzione fluida in movimenti centrifughi.
L’uso di palm muting e tapping rendono i brani tecnicamente impegnativi e mai scontati. La sezione ritmica è potente, precisa, fantasiosa. Il batterista sperimenta con diversi stili, passando da ritmi blast beat a momenti più cadenzati, creando un impatto e una tensione costante. Le linee vocali variano tra growl e clean vocals, a volte coesistendo all’interno della stessa traccia, il che aggiunge profondità emotiva e drammaticità.
Infine va detto che i Brvmak utilizzano principalmente scale diatoniche e modali, che possono richiamare atmosfere sia moderne che tradizionali. Le scale minori, in particolare, vengono impiegate per creare tensione emotiva in ogni canzone. Alcuni brani introducono interessantissimi elementi di scala esotica o modificata, che amplificano la sensazione di mistero e spiritualità.
Interessante è il concept lirico, incentrato sulla mitologia biblica, a mio avviso evidenziando la relazione che interpone l’uomo tra la divinità creatrice e il destino che domina gli eventi. L’album è prodotto con grande attenzione ai dettagli, garantendo che ogni strumento sia ben definito nella mix. Le chitarre sono affilate e aggressive, mentre la sezione ritmica è potente e ben bilanciata.
Peccato che tutta questa ricerca, lavoro certosino, qualità e intensità emotiva siano stati bellamente ignorati, sopraffatti dai soliti cloni scialbi e inespressivi della cosiddetta Old School Death Metal, che più che riciclare la solita sbobba non sa fare. Come dice sempre il mio caro amico Roberto: “il problema principale nell’heavy metal sono i metallari stessi”. Come non dargli ragione?
(Marco Grosso)