Dark Millennium – Onore al merito di Diana Read Peace

I Dark Millennium hanno tutti i requisiti per piacermi e spingermi a scrivere un articolo esaltante. Intanto non li conoscono in molti e questo è un buon segno di solito. La rete presenta un po’ di recensioni e interviste, ma sono collegate in quel modo automatizzato, da catena di montaggio, all’iter promozionale legato a dischi nuovi e alle ristampe di cui anche loro sono rei nel corso degli anni dieci. Sapete, per le webzines non esiste nulla che non si materializzi nella  mail in formato mp3. Poi  i Dark Millennium hanno fatto uscire due album all’inizio degli anni 90; cazzo, è stato uno dei periodi (1990-1995 abbondante) più vari, prolifici e disperati nella storia dell’heavy metal. Guarda caso quando ero adolescente. Inoltre quei due lavori, manco a dirlo, molto interessanti, uscirono per la Massacre Records; tassativamente bistrattata da Massignani su Metal Shock, ma che al tempo proponeva lo scorcio più irrequieto e progressivo del death europeo estremo. Ho scritto spesso dei dischi di questa etichetta nell’ultimo anno e non mi nascondo: è una rivelazione prima di tutto per me.

Purtroppo i Dark Millennium, “teteschi” di Friburgo, non ottennero i segnali d’incoraggiamento che si aspettavano all’indomani dell’uscita di Diana Read Peace o magari si erano spinti creativamente troppo in là, sfilacciando talmente i confini di quel doom-death-gotico edificato con il primo, Ashore the Celestial Burden, da non sapere più come raccapezzarsi per un po’ per recuperare il bandolo della matassa.

Il 1993 fu un anno pienissimo di uscite interessanti; molte non premiate dalle vendite. Il torto di molte riviste specializzate fu, per logiche commerciali discutibili, di dedicare spazio al mainstream del cazzo: almeno due paginette turistiche ai Pearl Jam e 4 all’andirivieni concertistico dei Metallica, anziché fare il proprio mestiere di esploratori e promotori di realtà davvero valide e intransigenti, di cui quel periodo fu insolitamente abbondante. I Dark Millennium avrebbero meritato uno straccio di intervista in Italia.

Va bene, Ashore… era una brillante una fusione tra i Sabbat di Dreamweaver, i primi Paradise Lost e un qualsiasi gruppo death floridiano di mezza fascia. Non suscitò grida di giubilo ma in quel momento di sicuro il pubblico era in grado di apprezzarlo. Fu il successivo Diana Read Piece, di cui oggi è fin troppo facile parlar bene, a mettere alla prova un pubblico già saturo di progressismi nell’estremo e capace di lasciar morire gente come Cynic e Atheist senza esprimere il minimo rammarico; se non dopo anni e anni di distanza.

Non sto paragonando il secondo album dei Dark Millennium a Focus. Ciò che avviene in Diana… non è riconducibile mai al classico tecnicismo intricato col jazz e la fusion di Pestilence e Death. Semplicemente la band tedesca per il vasto cielo delle possibilità, ignorando quanto fosse il filo che dava corrente agli strumenti. Per dire, Dead In Love sospende tutto su un arpeggio, poi imbocca la strada degli Opeth prima degli Opeth, torna indietro e casca di culo sui Pantera, Martens bercia una melodia degna di Marianne Faithfull e poi corre a nascondersi borbottando improperi al resto della band, in un bitume death-doom da dopo-scuola di Halifax. Per me è esaltante, ma nemmeno io al tempo avrei investito la mia paghetta su una cosa del genere. Che cacchio era quella musica?

Andiamo, oggi non ci rendiamo conto, ma nel 1993 molta gente ci mise dei mesi a capire che gli piaceva Heartwork dei Carcass e che ne voleva ancora. E due anni per capire che la brumba era ahimé finita. C’è chi iniziò a portare rispetto ai Cannibal Corpse e non reputarli più di uno scherzo, dopo l’arrivo di Corpsegrinder Fisher. Non era tutto così lampante, capite? Ancora oggi c’è un metallaro che si sorprende a pensare che la voce growl inizia a non dargli più tanto fastidio.

Quello che però si nota nel secondo album dei Dark Millennium, a parte l’originalità un po’ rocambolesca, è il disagio di Michael Burmann e Hilton Theissen nella gestione di un materiale davvero selvatico, vagamente alieno e che non capivano nemmeno loro da che parte pigliare, in certi momenti.

A provare le difficoltà maggiori in quel territorio tanto impervio e palustre però è Christian Mertens, poverino; mentre in Ashore… ruggiva calcando sull’esempio di Chuck Schuldiner e John Tardy, qui non sa bene nemmeno lui come cantare su certe vaghe digressioni pulite. Prova con delle melodie a voce piena, ma non ne trova di davvero intriganti e non imbrocca un sound canoro tanto convincente; quando Burmann e Theissen lo sommergono di riffoni alla Black Sabbath, potrebbe fare Ozzy e invece opta per l’accento svedese un po’ Fantozziano da post-Entombed. Quando fa un rutto alla Phil Anselmo il disagio è palpabile.

In certi momenti Diane Read Peace, i Dark Millennium mi hanno fatto tornare alla mente quello stile randagio e un po’ presuntuoso dei primi Alice Cooper, quando si concedevano la via lunga; non dico che siamo dalle parti Halo Of Fly e Black JuJu ma il passo sembra quello.

Non vorrei essere frainteso: io rispetto le band che rischiano, anche se gli dice male. Provo quindi una grande ammirazione per i Dark Millennium degli anni 90, ma devo riconoscere che alcune delle canzoni di Diana Read Peace non funzionano proprio. Però, alè, ecco qui il mio cappello per loro; perché ci sono dei momenti in cui davvero si resta sospesi a chiedersi come faranno a uscire dal vicolo cieco in cui infilano e poi si scopre che non è un vicolo e che il cieco sono io.