Secondo me il minor responsabile è proprio Dave Lee Roth, che conferma il piglio vivace e irriverente di sempre; è piuttosto la band a denunciare una preoccupante carenza di personalità… e quel qualcosa in più non lo si poteva chiedere ai soliti Tuggle e Bissonette Bros, né al secondo chitarrista Stephen Hunter, ma al pronosticato campione della sei corde Jason Becker. D’accordo, l’eredità di Vai era pesante ma questa poteva essere l’occasione giusta per la sua consacrazione su vasta scala e Jason non si può dire che l’abbia sfruttata al meglio. Già l’esclusione dalla rivoluzionata touring band, al di là delle motivazioni ufficiali, non depone certo a suo favore, tanto più che non sembrano dei campioni nemmeno i sostituti: Joey Holmes e addirittura Desi Rexx, l’ex cantante dei D’Molls ingaggiato come chitarra ritmica. – Beppe Riva – Metal Shock
Ecco, a parte questo estratto della stroncatura di Riva al terzo disco solista di Dave Lee Roth, A Little Ain’t Enough, utile per farsi un’idea di che aria tirava, almeno in Italia, per lui a quel tempo, continuiamo con un intervista, sempre nel 1991, su Metal Hammer. A porgli le domande non era un giornalista qualsiasi ma Peter Burtz, primo singer degli Steeler e fondatore della rivista, nonché A&R della Emi e colui che aveva scritturato per primo i Paradise Lost.
Le domande giravano intorno alla faccenda della formazione per il tour del disco, piuttosto diversa rispetto a quella che aveva suonato in studio. Jason Becker non c’era già più e nemmeno Steve Hunter. Già il fatto che ci fossero due chitarristi invece di uno è una cosa che sorprendeva il pubblico di allora. Sembrava infatti che una delle cause principali della separazione tra Dave e il resto dei Van Halen fosse che Edward insistesse per un altro chitarrista, così da potersi concentrare più sulle tastiere, mentre per Dave questo era fuori discussione per mille ragioni.
Del resto, anche nei primi album solisti Roth aveva mantenuto la posizione del chitarrista singolo e la formazione a quattro, puntando tutto su Steve Vai, mentre adesso, sia per le registrazioni che dal vivo, c’erano stati due chitarre.
Ora sappiamo una cosa, però. Dave non poteva dire la verità su Jason, in quel momento del 1991. Certo era stata una gran sfiga. Sì, soprattutto per Becker, ma io intendevo proprio Dave. Le cose per lui iniziavano a girare sempre peggio, dopo anni in cui gli era andata alla grande. La ruota stava rumorosamente girando.
Dopo aver perso in un sol colpo due fuori-classe come Steve Vai e Billy Sheehan, Dave avrebbe sicuramente voluto rimpiazzarli con due elementi che tenessero in alto l’aspetto sensazionalistico e pirotecnico dello show, ma chi avrebbe potuto titillare i sogni del pubblico? Chi c’era libero, sul mercato? I migliori erano stati tutti presi. Non esisteva un altro Vai, non esisteva un secondo Sheehan.
Però si poteva puntare su un giovanissimo di grande talento e prospettiva. Anche Ronnie James Dio, nello stesso periodo, per uno dei suoi lavori meno amati, Lock Up The Wolves, scritturò un pischello sconosciuto, Rowan Robertson, un bambino di grande talento. E Roth scelse Jason Becker, che nel giro dei virtuosi una certa fama già l’aveva. Sembrava destinato a percorrere la stessa strada dei grandi guitar hero della Shrapnel Records.
Purtroppo quando arrivò in studio, Jason si ritrovò pochi margini d’azione. Mentre Roth era in cerca dei nuovi rimpiazzi, aveva infatti già messo insieme la maggior parte delle canzoni, facendosi aiutare come era d’uso in quel periodo tra i grossi nomi della scena hard & heavy, da diversi compositori di professione. Pescò nell’aia creativa della Warner Bros. Per questo si ritrovò a collaborare con Craig Gouldy (ex chitarra di Ronnie Dio nel periodo Intermission-Dream Evil ed ex- Giuffria) che gli scrisse Lady Luck. Soprattutto per via della WB si spiega perché, tra i crediti del disco, si possono leggere nomi abbastanza curiosi della Storia del cinema (Preston Sturges, Dannis Morgan) che non sono pseudonimi, ma compositori imparentati a registi e attori che scrivevano per i film della grossa casa di produzione e che Dave scelse come collaboratori.
Insieme a loro c’era il veterano Steve Hunter, come detto. Nel 1991 era un chitarrista decisamente superato. Era di un’altra generazione, quella degli Ace Frehley, non sapeva trasformare la sua chitarra in un mitragliatore di note. Per molto tempo era stato in combutta con Alice Cooper e Bob Ezrin, nel periodo 1975-1982, passando quindi per Lou Reed di Berlin e una promessa del pop d’autore Robbie Nevile.
In questo carnet di menti e cuori, Jason Becker non aveva potuto fare come Steve Vai, il quale firmò tutte le canzoni di Eat ‘em And Smile e gran parte di quelle di Skyscraper. Non plasmò il nuovo corso artistico di David Lee Roth. Prese posto, fece il suo in ogni brano, ma in It’s Showtime, che è una rielaborazione di Hot For The Teacher, mostrò di cosa era capace.
Insomma, mentre Vai era sempre lì, in ogni passaggio di Yankiee Rose o di Shy Boy (scritta da Billy Sheehan) a dire ehi, ci sono, mi sentite? Notatemi, eccomi… Becker fece quello che doveva. E lo fece bene, ma senza gridare al mondo “io sono Jason Becker, cazzo!”.
Ci fosse stato un futuro diverso per lui, avrebbe potuto magari realizzare un intero album per Roth e chissà… ritardare il declino prima di involarsi per i fatti suoi in una carriera più raffinata e per pochi eletti. Ma nel 1991, pochi giorni dopo aver messo piede nel meraviglioso mondo di David Lee Roth, iniziarono i segnali di qualcosa che non andava per lui.
Fu dura anche per Roth: il giovane talento su cui aveva deciso di investire tutto si era ammalato prima di finire l’album ed era uscito di scena a ridosso del tour. Lo sostituì con quello che c’era in giro: Joe Holmes. Costui era un ottimo chitarrista, proveniente dai Lizzy Borden e destinato a far parte per un po’ di tempo della famiglia di Ozzy, ma in quel contesto di super-virtuosi, non possedeva il carisma del guitar-hero e non poteva rappresentare il futuro della DLR band.
Holmes era come quel solido attaccante che segna dodici gol a stagione con una squadra di media classifica. Ma se l’intervento di un secondo chitarrista in studio, Steve Hunter si poteva spiegare con lo stato di salute sempre peggiore di Becker, fu sorprendente che un bravo professionista come Joe, non sia stato lasciato libero di ricoprire da solo le parti di chitarra e che Roth optò per un altra sei corde dal vivo, contravvenendo a quello che fin lì era stato per lui una specie di dogma: il 4X4.
Tanto più che ne scelse uno altamente improbabile: pure lui forse troppo fuori forma per andare in tour: Desi Rexx dei D’Molls. E chi si aspettava un altro bassista fenomeno al posto di Sheenhan dovette accontentarsi di Matt Bissonette, fratello del batterista del gruppo. Troppo poco per alimentare le attese. Il bello è che gli assemblaggi da calcio mercato di fine anni 90 smisero di pagare, in ogni caso.
Basta vedere come andò ai Whitesnake con Vai e Vandenberg nella stessa formazione stellare. Chiaramente il repertorio dal vivo della DLR Band, come testimonia il mio amico Manuel Fiorelli, cultore, esperto e perenne sostenitore di Roth, e presente a una data del tour 1991 in Canada, fu una rimozione quasi totale della fase Vai, con un ritorno al repertorio classico dei Van Halen e alle gigionerie dell’EP Crazy From The Heat.
Non credo fosse per voltare le spalle ai traditori, ma perché Holmes, Desi Rexx e Matt Bissonette, pur bravi, non potevano suonare le cose di Steve Vai e Sheenhan. Punto.
E già che l’ho tirato in ballo, proseguo con Fiorelli. Manuel è un tipo molto gentile e da giorni sopporta i miei sproloqui su Roth. Alcune delle cose che sto scrivendo in questo pezzo, sono dovute agli scambi che ho avuto con lui. Beh, vi dirò che lui è uno di quelli che difendono con grande decisione A Little Ain’t Enough.
Per lui i primi tre album sono una sorta di trilogia: il primo rappresenta “la festa, il party”, l’anima decadente e viziosa degli anni 80. Il secondo, Skyscraper, è “la sperimentazione”; Dave era stufo di fare solo rock and roll e voleva provare cose diverse. Produsse l’album insieme a Vai e tra i due le cose cominciarono a non andare più tanto bene perché mentre Vai e Sheenhan con lui volevano proseguire sulla via hard tecnico-minchiona del primo disco, Roth aveva bisogno di staccarsi da tutto quello e infilarsi in qualche vicolo nuovo, magari pure senza uscita, ma che sentiva di dover imboccare, dopo tutti quegli anni di successo (Damn Good, la title-track). Tornando a Manuel e la sua trilogia personale, per lui il terzo album rappresenta “la concretezza”.
E può starci, A Little Ain’t Enough torna a roba più hard rock, soda, anche se mantenendo l’attitudine girandolona di Dave, che si concede da sempre escursioni ovunque: dal funk al swing al blues alla faccia di chi ci vuol male.
Eppure non so, io l’album l’ho trovato meno ispirato dei precedenti. Il sodalizio creativo con Becker non ha avuto il tempo di cominciare. Roth ha scambiato più a livello umano con Craig Goldy, con cui finivano le sessioni creative guardando i tramonti sul portico di casa, che con Jason in debilitazione crescente.
Sospetto che in alcuni pezzi Becker non abbia proprio suonato. Prendete Shoot It. Sono sicuro che lì c’è solo Hunter.
Oltretutto a produrre l’album non c’era mica un pirla, ma Bob Rock, l’uomo che avrebbe cambiato, pochi mesi dopo la storia del metal insieme ai Metallica e bla bla bla. Ma tra tutti i dischi realizzati in quel periodo, spesso fatico a ricordarmi che dietro il sound di A Little Ain’t Enough ci sia stato proprio lui. È un buonissimo lavoro, per carità, ma non penso mai che sia “Rock”, inteso come il nome di Bob.
Il problema peggiore, a parte la sfiga “morattiana” di Roth nel 1991, però è da attribuirsi a Dave stesso. Dopo essersi preso una pausa di circa due anni, con i giornali che avevano approfittato del suo silenzio per scrivere pagine e pagine di illazioni, insinuazioni e previsioni negativissime sul suo futuro, non ebbe il tempo o l’energia per maturare una nuova versione del suo personaggio.
Diamond Dave era tornato con la solita andatura da cartone animato, la faccia da festa, ragazze californiane e belle macchine intorno a lui, ma se già c’era chi pensava che fosse superato al tempo di Skyscraper, a trasmettere questa sensazione di decadimento incipiente ci avrebbe pensato meglio la guerra in Iraq, che fu (altro che grunge) il vero motivo del crollo del metal anni 80.
Anche nelle interviste a Roth, da Metal Shock ad HM e via così, si accenna agli eventi politici, all’abbattimento di un aereo e la morte di cinque americani sul suolo nemico mentre lui era in giro a fare il bighellone promozionante. Lui provava a creare un collegamento tra la propria arte e quel che stava succedendo citando Hammerhead Shark. ma era chiaro che quel disco pagava un ritardo sulla realtà. L’aveva ideato anni prima della sua uscita, in un tempo ancora spensierato e di decadente goliardia. Però Dave dice una cosa curiosa in un’intervista. Ammetto sia anche una roba suggestiva ma sostanzialmente falsa:
Ne potrei parlare in modo molto specifico, non mi preoccupa la reticenza degli Americani verso l’argomento (generalmente non se ne può trattare in campo artistico, fino a che l’ondata emotiva non è passata ndr) Preferisco illuminare le forze in atto
in un modo un po’ poetico. Parlo delle forze del male che agiscono nel mondo arabo di questi tempi. Hammerhead Shark parla di questo, partendo dalla mitologia antica fino ai giorni nostri. Non è una canzone specifica geograficamente, ma può essere applicata alla guerra appena finita. Fa sì che la mia musica sia un po’ di più senza tempo. L’unico altro modo perché lo sia a patto che io mi suicidi e finisca come Jimi Hendrix con una ventina di album postumi. – Dave Lee Roth, 1991.
Peccato che Hammerhead Shark non sia un brano suo. È stato scritto (è già pubblicato un anno prima) da un simpatico duo acustico, Lowen & Navarro, ma di questo il pubblico difficilmente avrebbe potuto accorgersi, vista la differenza di popolarità tra gli autori del pezzo e quella di Roth.
Chiaramente Dave capì l’antifona su come stavano diventando le cose e si illuse di avere ancora tempo per rimediare, giocandosi tutto nel disco successivo, che assolutamente non doveva sbagliare.
Intanto si prese il suo tempo. Rivoluzionò la band fin quasi a non averne più una vera e propria in studio. Lì fu un via vai di turnisti che si avvicendarono agli strumenti. Altro cambiamento, si trasferì a New York in cerca di nuova ispirazione e lavorò sui pezzi con calma (quindici mesi + tre a incidere in studio) girando in bici con i demo nelle orecchie (una chitarra e una batteria) e aspettando di inzuppare quelle intuizioni nella realtà, “vivendoci dentro prima di tirar fuori i testi”.
Le nuove canzoni raccontavano in profondità la sua vita intima, il trasloco, l’adattarsi a un altro ambiente, era un Dave più cantautoriale, insomma. E poi tagliò i capelli, sempre più radi. La riduzione del volume della chioma fu uno dei punti dolenti dei report dei suoi concerti del 1991. Si concesse un look meno appariscente, elegante ma non troppo.
Avete presente il video di Night Life? Dove lui si aggira per le fredde strade di New York? Ci si domanda dove siano finite le spiagge, il sole, le belle ragazze abbronzate, ma Dave ci fissa con lo sguardo serio e il volto teso, in metropolitana, e sembra dirci: “è tutto andato, ragazzi. Adesso io vivo qui, in un mondo in bianco e nero, un po’ sgranato, con una ragazza bella che mi segue o io seguo lei, non ho ancora capito… bella sì, ma così bianca e dimessa che potrebbe essere una non morta in caccia e io la sua preda. Le mie notti sono fatte di camminate, di stazioni e di caffè bollenti su un marciapiede in cerca di vittime”
In pratica era diventato come Sting. “Ma non è Sting!!!”, lo dicono in coro gli ultimi due comprimari che ancora non l’hanno mollato dal 1987: il batterista Greg Bisonette e il tastiere Brett Tuggle (RIP). Entrambi assistettero allo sfacelo del tour 1994 e poi salutarono pure loro.
Non fraintendete, Your Filthy Little Mouth è un disco robusto, prodotto benissimo e con alcuni momenti creativi eccellenti. Il mio brano preferito è Sunburn, in cui Dave dipinge un visionario abbrustolimento collettivo, un bagno di raggi ultravioletti stando tutti sdraiati sul tetto della metropoli incandescente, senza crema solare. Sembrano i Beach Boys se fossero un racconti di J.R. Ballard.
penso che il tuo naso si stia sbucciando
il sole è caldo e limpido
la città è abbastanza fumante
posso sentire il sapore della tua pelle da qui
Di sicuro era un Roth più al passo con i tempi, centrato, un po’ lunare, sincero. Everybody’s Got The Monkey è ancora oggi trascinante. Sarebbe stato il singolo giusto, per quanto She’s My Machine sia andata molto bene in radio, ma non su MTV dove le cose contavano sul serio. Insomma, non credo che Dave Roth abbia sbagliato album o non avesse le canzoni adatte. Il sospetto che ho è che, così come il Dave del 1986 poteva solo vincere, a quello del 1994 non restava altro che la sconfitta. Il mondo era stanco di lui e di ciò che ancora rappresentava nella fantasia comune, tutto qui. Erano stufi tutti quanti di proiettarsi nella “bella vita” di un figlio di puttana dannatamente fortunato. Preferivano la depressione e i tentativi di suicidi di Cobain. Stava peggio di loro, anche se era ricco e famoso, quindi non lo invidiavano, lo compativano e si sentivano fortunati a non essersi mai incasinati la vita con il rock.
Dopo nemmeno dieci anni, uscita clamorosa dell’EP Crazy From The Heat, era tutto finito. E avrebbe continuato a peggiorare, perché come si dice, se c’è una fine significa che non c’è un peggio, ma se c’è un peggio, allora non c’è una fine. Esatto, non c’è fine al peggio.
E pensare che nel 1996 tra Dave e i Van Halen ci fu una specie reunion. In occasione della raccolta del Best Of Van Halen vol.1, Roth torna al posto di Sammy Hagar con due pezzi inediti tutt’altro che “filleristici”. Purtroppo l’idillio durò il tempo di spargere la voce in giro. A detta di Eddie e Alex, non c’era alcuna intenzione di rimettersi con Roth. Si dovevano fare due canzoni nuove insieme e la cosa finiva lì. Fu lui a fraintendere e comportarsi come se il gruppo stesse per rimettersi in pista. L’equivoco si rivelò agli MTV Music Awards, quando la band si presentò sul palco e poco dopo l’apparizione imbarazzante, si chiarì in malo-modo la differenza di idee tra Dave e gli altri.
DLR Band, del 1998, prodotto indipendentemente dallo stesso Roth per la sua Wawazat! Records, è un lavoro abbastanza “cruento”, soprattutto per la performance canora dello stesso Dave. Sapete come funzionano queste cose, è come per le pizzerie al taglio. Se inizi a perdere clienti, risparmi sulla mozzarella e senza abbastanza mozzarella la tua pizza è meno buona e avrai ancora meno clienti. Roth senza produttore fece cose che un produttore gli avrebbe impedito di fare, cose che probabilmente gente come Bob Rock, Ted Templeman e Steve Vai gli avevano già in passato impedito di tentare.
Forse per rispondere alle provocazioni di Sammy Hagar sulla sua limitata estensione vocale o magari fu solo per scarsa auto-critica, Roth cantò alto, troppo alto per i suoi standard, spingendosi oltre le soglie del dolore (il suo e il nostro). Con Hagar fecero pure un assurdo tour insieme. Ci sono dei video sul tubo che raccontano i livelli surreali raggiunti durante la faida tra i due, in quel pazzesco esperimento promozionale.
Vorrei dirvi che Dave sia poi riuscito a risollevarsi, chiudere in bellezza il suo percorso in solitaria, ma non posso, sarebbe una cazzata. Diamond Dave del 2003 è stato un altro episodio dimenticabile, ma ha di buono che almeno “se ne frega”.
Da Skyscraper in poi è palese il senso di ansia di chi vuole tenere a sé un pubblico che si allontana sempre più, di chi pensa ancora di essere al top, perché nonostante siano calanti, le cifre di vendita sono sempre a sei zeri, almeno fino al 1991, ma nel 2003 Dave se ne è fatto finalmente una ragione e questo album, pieno di cover e con qualche inedito così così, giusto perché gli gira di farlo, sbatte in faccia a tutti il suo anthemico “sticazzi!”.
E anche se non sono sicuro che sia la fine e che lui non ci riprovi nemmeno, adesso che i Van Halen non ci sono davvero più, potrebbe essere il congedo elegante di chi in fondo è abituato a salire e scendere dalle montagne, figurarsi dal mercato discografico.