Ronnie James Dio – Troppe ombre in paradiso

Quando si affrontano i cosiddetti “miti” del popolo metallaro, purtroppo prevale una sorta di “captatio benevolentiae”, che di fatto esalta principalmente gli aspetti postivi e il focus sull’opera e meno sul suo creatore. Ho sempre pensato e lo penso ancora, che dovrebbe essere un disco, un libro, un film, un quadro a esprimere il valore e non tanto chi l’ha realizzato, ma so che è un’interpretazione soggettiva e lo accetto. Un critico vero però dovrebbe integrare la risultanza di un lavoro con i processi che lo hanno portato al compimento, evidenziandone anche le parti negative.Questo per “smontare” l’aura mitica di tanti idoli, tra cui Ronnie James Dio, che tutto è meno che un santo

Andiamo al sodo. Per i primi tre album i Dio 1983 – 1986 sembravano una vera band, non c’è dubbio, ma forse così non era. Il concetto di gruppo non è solo chi viene pagato e per cosa fare. Ciò ha che fare con la frequentazione solidale e il rispetto reciproco, una visione comune e una gestione paritaria del progetto. Così era a parole, ma non nei fatti.

Ronnie diceva che i musicisti delle band di Los Angeles sono fondamentalmente parti intercambiabili di un puzzle, sottintendendo che, essendo stipendiati, erano soggetti alle decisioni di un capo. E il capo era lui.

Nonostante nelle canzoni i crediti fossero distruibiti un po’ a tutti, in qualche intervista gli ex membri avevavno recriminato che Ronnie avesse messo il suo nome nel borderò anche quando non doveva. Dio ha promesso mari e monti a Vinny Appice, gli era stato prospettato di avere il mondo e non l’aveva ottenuto, pagato quattro spiccioli e poco più.

Diverso ma non meno grave il fatto che anche per Vivian Campbell, che proveniva da una famiglia benestante, la paga era bassa e meno remunerativa rispetto ad altri musicisti di band di pari valore.

Claude Schnell, tastierista di assoluto valore e con una preparazione di qualità non fu trattato molto bene e in un intervista svelò come Dio giocasse con le sostituzioni dei suoi musicisti con la complicità della moglie Wendy, l’alter ego di Sharon in quanto a cinismo e spietatezza. Come il turn over tra Campbell e Goldie.

Dalle parole di Schnell si evince come “da un lato Craig Goldy è un chitarrista molto bravo, ma tutti noi sentivamo che Vivian Campbell era stato trattato molto male, non solo da Ronnie, ma sopratutto da Wendy Dio, colei che aveva l’ultima parola sulla band. Vivian è stato praticamente incastrato e messo in una posizione in cui l’unica cosa che poteva fare era proprio quella che lo avrebbe fatto cacciare dalla band. Quando ciò avvenne, Wendy cercò di far entrare Craig nella band e Vivian fu licenziato senza tanti complimenti. A mio modesto parere senza alcuna colpa”.

Tanto che poi si unì ai Def Leppard, innescando in Dio un sentimento di gelosia, rancore e diniego, pur sapendo che lo aveva sfruttato e sottopagato. Campbell guadagnava dieci volte tanto lo stipendio erogato nei Dio, ma rimane un pensiero: se Wendy avesse concesso un compenso più alto e giusto, forse anche su Dream Evil (a mio parere disco sottotono rispetto ai primi tre), il risultato sarebbe stato molto migliore, ipoteticamente con un Campbell motivato e invogliato a scrivere più musica.

In questa girandola di gioco al massacro pure Goldy non rimase nei Dio. Non è un mistero che già a partire da Lock Up The Wolves la qualità espressa fosse sempre più debole e peggiore di quanto fatto prima, con gli ultimi dischi che erano un pallido e sbiadito “copycat” dei primi.

Sempre Schnell spiega il turn over ai tempi di quest’ultimo: “Il chitarrista con cui volevamo sostituire Craig, quando dico noi intendo Vinnie, Jimmy e io, era un chitarrista di nome Gary Hoey. Aveva fatto un’audizione per noi ed è stato fantastico, non credo che la band abbia mai suonato meglio. Noi tre eravamo convinti che Ronnie avrebbe amato questo ragazzo. Quando Gary finì i provini, Ronnie entrò in studio e disse: “Ragazzi, mi odierete per questo, ma ho trovato il chitarrista, Rowan Robertson”.

Noi eravamo delusi e arrabbiati. Dato che eravamo bloccati con un chitarrista che non volevamo, la scelta di Rowan da parte di Ronnie non era per nulla entusiasmante e, per quanto le prove stessero andando male, all’inizio Rowan faceva molta fatica a reggere la pressione a cui Ronnie sottoponeva tutti. Faticava a tenere il passo e la tensione cresceva sempre di più. Jimmy era stato licenziato, Ronnie sembrava terribilmente contrariato dalla performance di Rowan, le canzoni erano bruttarelle nel migliore dei casi e io non volevo far parte di un gruppo in cui non c’erano Jimmy e Vinnie. ”

L’album del 1990, fu il catalizzatore di un terremoto interno. La dipartita del chitarrista Rowan Robertson, sostituito da un giovanissimo Tracy G, fu solo la punta dell’iceberg. In un’intervista dell’epoca, Dio stesso ammise: “C’erano delle tensioni, delle divergenze creative. Volevo una band che fosse una vera famiglia, ma a volte le famiglie litigano”.

Troppo spesso a casa tua Dio, aggiungo io. Sintomi di un malessere profondo. Tracy G, con il suo stile più moderno e aggressivo, non riuscì mai a conquistare del tutto i fan più affezionati, che rimpiangevano i fasti di Vivian Campbell e Craig Goldy. Le critiche, spesso feroci, alimentarono un clima di insoddisfazione che si rifletté anche all’interno della band.

Gli album Strange Highways e Angry Machines sono il naturale risultato di una sperimentazione forzata e priva della spinta creativa collettiva. L’innovazione, in questo caso, appariva meno come un percorso evolutivo e più come un tentativo disperato di rimanere rilevanti nonostante le tensioni interne. La band aveva ormai perso quell’intesa che, nei primi anni, permetteva al tutto di funzionare in simbiosi.

In un’intervista del 1996, Tracy G dichiarò: “Ronnie voleva esplorare nuovi territori, ma non tutti erano d’accordo. C’erano delle discussioni accese, ma alla fine era lui il capo, si doveva fare a modo suo”. La sensazione era che la band (se di band in senso stretto si può parlare) avesse perso la bussola, alla ricerca di un’identità che faticava a trovare. I cambi di formazione si susseguirono, con l’addio del batterista Vinny Appice e del bassista Jeff Pilson. Avanti i prossimi!

Con Magica, Dio tentò un ritorno alle sonorità epiche e melodiche dei primi album, non con quella qualità, ma il clima interno non era più lo stesso. In un’intervista del 2002, il bassista Jimmy Bain, tornato nella band dopo anni di assenza, confessò: “C’erano tentativi di ricreare quella magia del passato, ma le ferite erano troppo profonde”.

Anche se Ronnie aveva il dono di mantenere l’attenzione sul prodotto finale, la tensione e il malessere all’interno della band si leggevano in ogni nota. Forse se ci fosse stata una maggiore equità nella distribuzione dei crediti e una retribuzione più giusta, la creatività avrebbe potuto esprimersi in modo più autentico.

Era evidente che, nonostante la volontà di reinventarsi, Dio non era più in grado di superare i contrasti interni. Le scelte imposte non solo danneggiavano il clima stimolante, ma si riflettevano direttamente sulla qualità del lavoro, trasformando quella che un tempo era una fusione armoniosa di talenti in un bacile caotico e carico di tensioni.

Dietro ogni grande artista si nasconde una storia complessa, fatta di sacrifici e scelte che, a volte, vanno ben oltre il semplice fare musica. In Dio c’era un genio carismatico, ma anche una volontà di controllo che lo ha reso incapace di trasformare una potenzialità collettiva in una vera opera partecipata.

Se vogliamo una prova provata su quanto espresso prima riguardo il concetto di band, collaborazione, lavoro di squadra, basta esplorare una qualsivoglia setlist dal vivo di Dio: la stragrande maggioranza di brani eseguiti si riconduce ai primi tre (fino a Sacred Heart) e a numerose canzoni di Black Sabbath e Rainbow. Qualcosa vorrà dire? Sì, che il meglio lo ha espresso nel prima e non nel dopo, suffragato dal fatto che i fans vogliono ascoltare la roba vecchia e non la nuova.

Aggiungo una personale opinione: a mio avviso il meglio Dio lo ha sempre dato quando non era l’unica mente decisionale, ma doveva confrontarsi con altre personalità pari o superiori alla sua, quali Toni Iommi e Ritchie Blackmore. Non vorrei si pensasse che voglia sminuire o annullare il talento e l’opera di Ronnie James Dio, che è un’eredità importante e spesso di assoluto valore, ma credo sia giusto ricollocare ogni cosa al suo posto, per dare un quadro reale e non mitologico di una storia, con le sue luci e le sue ombre.

Marco Grosso