Fenomenologia del Mostarda Metal!

Cosa lega la tarda statuaria greco arcaica, Le vergini delle rocce di D’Annunzio, il Dottor Zivago di Davin Lean, le tele di Alma Tadema e il disco Traverse the Bealach di Sgàile? Mettetevi comodi, si parla di mostarda Metal.

Nell’epoca dello sdoganamento del brutto in chiave antiaristotelica, un filone della goliardia transglobale è il fenomeno del “così brutto da piacere” (in Inglese so bad it’s so good) nato in ambito cinematografico per descrivere il senso d’apprezzamento “peccaminoso” per opere così assurde da essere divertenti.

Che ciò sia stato anche usato per distruggere il senso del bello può essere vero, ma una persona che cerca l’equilibrio riconoscerà in “The howling 2” è un film orrendo che provoca involontariamente le risate e ciò non farà smettere d’apprezzare Fuga da New York o Il monello. Ecco che Doug Walker, il critico cinematografico di Chicago conosciuto come Quel tizio con gli occhiali o Il critico nostalgico, ci venne in aiuto quasi dieci anni fa con questo breve video, ben sottotitolato in italiano:

Walker suggerisce l’intrigante possibilità che nelle opere esista il versante opposto ai film di Ed Wood e Sharknado, ossia la possibilità d’un bello formale portato all’eccesso, dove l’assenza dell’umana imperfezione è la cifra d’un oggetto freddo anche quando cerca d’avere contenuti profondi e tenti di suscitare emozioni. Egli cita pellicole famose come Truman show, il Dracula di Coppola e Nuovo cinema Paradiso, filmoni da premio dove nulla è fuori posto e si è di fronte ad un senso d’alienità pari ad una canzone suonata senza errori millesimali.

Un manierismo estremo che quasi annienta l’analisi critica e s’addentra in un territorio terrificante, palude in cui il critico non può valutare negativamente nulla se non parlare nei termini d’una personale mancanza di connessione, vanificando così la missione d’obiettivizzare attraverso la disamina, il suo strumento per avvicinarsi alla verità oggettiva. Walker suggerisce questa metafora: “un piatto talmente delizioso da essere disgustoso”, una cosa impossibile. Ma quel piatto invece esiste, ed è la mostarda.

Un alimento particolare, un condimento insieme dolce e piccante che, anche quando sapientemente preparato, al primo assaggio è buono, al secondo passabile, al terzo diventa tortura, poiché tutte le sue caratteristiche costitutive sono portate all’eccesso formale. E questo suggerisce inoltre la sua bontà a piccole dosi, nel cibo come nelle arti.

A riprova di ciò la storia ha molti esempi: alla fine del sesto secolo AC, in Grecia lo stile delle sculture di kouros e korae perde terreno non a causa della decadenza esecutiva dello stile, al contrario per il raggiungimento d’una perfezione innaturale, fredda, dalla quale gli artisti ripartirono abbandonandola per la statuaria iconica che culminò nel Partenone.

Non elencherò esempi da ogni luogo ed epoca, veniamo a tempi recenti: il fenomeno prosegue nella pittura accademica ottocentesca col trionfo del formalismo che portava all’eccesso il neoclassicismo ammorbandolo con gli elementi meno brillanti del romanticismo. Elesse in Alma Tadema il suo esponente più illustre, il super accademico che portò al collasso quello stile con la sua pittura agilmente tronfia.

E quale esemplare di razza italica più illustre se non il grande vate abruzzese, il Signor Rapagnetta con il suo romanzo mostro “Le vergini delle rocce”, esemplifica la via peninsulare alla mostarda?

Doveva essere il primo d’una trilogia che rimase abbozzata, perché in quell’esordio che ne fu la fine, il Vate concretò una prosa esaltatamente controllata, glacialmente eruttiva, un pachiderma dalla perfezione formale insostenibile, degenerazione elevata a potenza inumana di quel capolavoro che fu Il trionfo della morte e che isterilì ogni possibilità d’un seguito.

Con un balzo nel secolo scorso, la versione cinematografica del Dottor Zivago è un piatto di mostarda che unge, invisibile ma pericolosa, i baffi del grande Omar Sharif: tutto perfetto, da far sembrare La gatta sul tetto che scotta di qualche anno prima opera di geniali dilettanti.

Nella musica ci sono esempi simili, ma citerò come prologo al disco in questione il finale della suite Relayer degli YES, dove dopo l’epica e convulsa parte centrale, ad una fase di quiete ambientale segue un paradisiaco insufflamento che diviene un colosso di dolcezze sonore nauseabonde, dove l’armonia fra le parti melodiche diviene insostenibile.

Da allora, la mostarda è esondata in ogni genere, ed oggi, con gli strumenti cibernetici sempre più sofisticati, il sofismo è dominante nella realtà, invero antisufica anche nelle montagne scozzesi che un tempo resistettero alla hybris romana e poi all’orda neoimperiale di Albione.

Tony Dunn è un Celta scozzese che si è denominato Sgàile, nel loro gaelico significa ombra.
Suona tutto e canta, con grandi virtuosismi. Negli anni scorsi ha collaborato con il progetto Saor, e  dopo il suo esordio nel 2021, ha deciso di pubblicare il seguito l’anno scorso con Traverse the Bealach. Un concept che mescola l’amore per l’escursionismo con una storia postapocalittica di tipo ambientalista, una palestra di individualismo e introspezione mastodontiche derivate dal frequentare la commistione di ultradoom e black ambientale con i progetti Con an tursa e Falloch, così di moda nello scorso decennio.

La voce di Dunn è sublime, tragico urlo melodioso che squarcia il cuore, gli strumenti uniscono il miglior black melodico con l’aspetto di musica da camera di certo doom, la parte ritmica è capace di imbastire trame progressive geniali, galoppare o rallentare con eguale efficacia. I suoni sono ben fatti, alla faccia dei fanatici indie maniacali della basa definizione che ammorbano trasversalmente rock e Metal, sono grandiosi e sensazionali. Ma mezz’ora può andare bene, non l’ora torturante del disco. Cos’ha che non va, ben registrato e prodotto, affascinante, con idee di grande slancio melodico, una voce fenomenale, arrangiamenti iperbolici, brani lunghi e monumentali?

Epitome della mostarda: non si tratta dell’orrida melassa degli Unleash the archers, ma di qualcosa che involontariamente le si avvicina. Il primo brano avvolge l’ascoltatore e lo slancia in scenari epici e malinconici, il terzo conferma ciò con mestiere, il settimo lo respinge. Troppa carne al fuoco e perfezione, forse con lo zampino di tecnologie ultra-definenti.

Tutto sembra studiato da un gruppo di tecnici del suono e ingegneri gestionali. Si vola alto rispetto alla Melassa ma non siamo di fronte ai magnifici Solefald, ma alla mania della “onemanband”, con idee d’un singolo che, inserite in un gruppo, avrebbero dato altri frutti, e invece sono il portatore del catastrofismo del potere e delle sue fole anti CO2.

Oltre a questo egocentrismo turbocapitalistico, il problema di molti musicisti di oggi è ignorare la lezione del passato: Jeff Porcaro criticò nettamente il modo di incidere dei Bee Gees con i quali collaborò brevemente a causa del modo inumano di concepire l’esecuzione del ritmo. Quale gruppo è insieme melassa e mostarda più dei tre australiani e i loro ritmi scanditi da uomini ridotti a parodie delle macchine e ai loro falsetti parodia delle sfere celesti?

Per converso, il disco Adrenalize dei Def leppard propone un’altra lezione, costruttiva: una produzione fantascientifica ma una musica segnata da piccole imperfezioni, quelle che danno alla calda e malinconica voce di Joe Elliot, alla batteria bizzarra ed esaltante di Rick Allen, al basso stabile ma poderoso di Rick Savage e soprattutto alle chitarre lancinanti e saltellanti di Phil Collen abbrivi infiniti per spaziare all’interno d’un genere che spesso ai musicisti moderni sembra vuoto e sterile.

Dunn potrebbe crescere e diventare uno dei grandi di questi tempi, se solo accetterà di mitigare e lasciare la mostarda al suo destino di condimento da centellinare e non di piatto principale.

Date le immense possibilità delle rete, ora che essendo “onthelain” e sull’”interweb” possiamo confrontarci (da trent’anni…) con i lettori, vi propongo un gioco: confrontatevi con chi ritenete adatto sul tema della Mostarda e poi proponeteci nei modi che ritenete adatti esempi della vostra opinione su dischi definibili come Metal mostarda. Potreste rimanerne stupiti; e allora, stupite anche noi.

Tony Paul Bevan Rossi