E ora parliamo di Melassa Metal

C’è qualcuno di voi che ha mai sentito parlare o letto di “melassa Metal”? Ora sì. Oggi vi parlerò d’una categoria di dischi che fa specie a sé. Su Metal mirror, vennero individuati in modo intrigante gruppi Metal dal suono legnoso, ovvero che alla lunga sono rigidi e insapore.
Bell’ossimoro Metal legnoso e le loro disamine furono tutte condivisibili e rispettose degli artisti inseriti nella categoria (e spesso sono teutonici). A ben pensarci, questa è una cosa più legata al passato, oggi domina un nuovo paradigma: una tendenza molto più pericolosa è presente nel Metal da quando è arrivato, come un Blob immondo, il metal melassa.

La melassa è un sottoprodotto dello zucchero dall’aspetto “liquido e viscoso, di colore bruno”, citando la Treccani. Una sostanza, infiltrante, appiccicosa, un po’energetica ma sproporzionatamente lassativa: molta della musica odierna è così, anche grazie alle masterizzazioni adatte alla riproduzione non su stereo. Ai bei tempi in cui Hetfield galvanizzava le nostre schiere urlando “Metal militia”, nessuno immaginava che 40 anni dopo lui stesso si sarebbe trasformato in ispiratore deleterio: da “metal miliscia” a “metal melassa”, sappiamo cos’è accaduto.

Al lettore che parlava dell’assenza di certi dischi di Makarov sulla mia disamina: alcuni non sono essenziali e io punto solo sull’indispensabile, certamente non indico quei lavori che sono indirizzati nella zona soporifera e malsana della parola Post davanti un qualsiasi sostantivo e soprattutto, nessuna concessione alla melassa che deriva da ciò (o post di Post sul “post”)…

Come fa la melassa a essere soporifera se deriva dallo zucchero? Perché è come quelle pellicole che essendo troppo frenetiche, annoiano e sono indistinguibili da altre. Da quando sono ragazzino, il concetto suppost(o) di qualcosa oltre la modernità mi fa ridere o arrabbiare. Ignoranza di chi recepisce e ripete più malevolenza di chi spinge la confusione, sono i mali peculiari di quest’epoca. Per questo motivo sono rigoroso nella scelta dei dischi come nella definizione dei generi.

Essere precisi non è questione di etichettare e dividere persone e scene; al contrario, chiarire le differenze mette in luce le particolarità di ogni espressione ed evita il bagno di melassa e omologazione che si impone dall’alto, spingendo a una reale e reciproca conoscenza, profonda e proficua.

Per chiarire è necessario individuare le appartenenze e ciò innesca padronanza in chi ascolta finché, con l’andare del tempo, trova in gruppi apparentemente distanti radici ed elementi comuni, anche nell’organico di un disco (per Andrew W.K., paladino d’inizio millennio d’un Powerpop influenzato da Jim Steinman, scoprite un po’chi è il batterista…)

Quindi: post punk? E’ giusto New wave of glam rock per gli Spandau ballet oppure rock gotico per gli UK decay. Post hardcore? Progressive sincretico, i Fugazi non son lontani dai King crimson di Red, o Crossover di Hardcore e Noise per i NoMeansNo. Lo squallido Post Rock (e allora perché non indicare ridicolmente il prima come pre-rock, ma i sofisti odierni usano ovunque proto per, come si dice in Italia, “farsi fighi”) è una melassa per depressoni che si fingono intimisti sentendosi dei novelli Pascoli elettrificati e soporiferi, nei migliori dei casi dei Sigur ros più mosci.

Nel Metal la cosa entrò in modo assurdo: nessuno chiamò la musica di Machine head ed Exorder “Post thrash” ma fu coniato un termine (ancora inadeguato) “groove”, per illuminare la sua appartenenza alla famiglia che comprende Destruction come Watchtower. Evidentemente i tempi non erano maturi per eccedere nell’immondizia.

Fu quando vidi apparire Post davanti al Doom che suonò l’allarme: lo Sludge trasformato in Melassone, una poltiglia all’ennesima potenza data dalla proliferazione seguente all’impulso dei Neurosis e proseguita dagli Isis. Per uno che era ragazzino negli anni 1960 sono meritevoli diverse cose di quei gruppi (specie di Pelican e Cult of Luna), ma la proliferazione negli ultimi decenni è asfissiante e senza senso.

Non esplorerò il Post Black, potenzialmente immenso come tasso di dispersione del talento. Invece mi concentrerò sulla contemporaneità, altrimenti i Silvestrinisti ci accuseranno di passatismo.

Campioni 2024 nel melassismo estremista, gli sloveni Siderean offrono un parente evolutosi dai loro esordi, i Teleport, verso un ampio disegno Death progressivo che pecca di pretenziosità senza la materia succosa di pilastri come i Sadus.

Intrusioni Black, un certo chitarrismo di ascendenza Meshuggah e soprattutto l’andare (paradossalmente) sul sicuro per un gruppo che avrebbe pretese avanguardiste: tutto è atteso, le canzoni vanno nella direzione di soluzioni a modo loro banali, che vogliono stupire in modo artefatto, sofistizzante.

Non c’è la tensione positiva dei Wills dissolve, tutto si svolge in modo asettico, la genialità è assente. Le tematiche esemplificate dalla solita copertina Post lovecraftiana sono le solite d’un cosmo orrendo e invivibile e la canzone che inizia il disco, dimostra col testo pseudo-criptico un intellettualismo sterile e gelido che ammorba in modo anti-vitalista e nichilista tirando in ballo Plotino. In loro, la melassa è tutto ciò che imbriglia dando una forte sferza iniziale seguita dal cupo piegarsi di chi soffre pesantezza di stomaco.

Sul versante melodico la palma va però al caso degli ultimi dieci anni, gli Unleash the archers.

Qui il discorso si fa paradossalmente più articolato e pericoloso, quindi nervi saldi.
Un vero peccato per il Canada, terra in genere più positiva, ospitare un gruppo che sta facendo del male, e non solo per la questione dell’uso di macchine nella scrittura dei testi (e chissà per i brani).

Il loro melassismo neopower è ben peggiore dei risvolti più zuccherosi del Power (neo)melodico, dato che si muovono anche loro in modo troppo sicuro, anzi, paraculo.

Ogni arrangiamento mira a non scontentare nessuno: virtuosismi ma anche durezza, mid-tempo, una cantante dalla voce non bassa né alta e soprattutto canzoni altamente prevedibili che urlano “sono quello che ti aspetti!”, un po’come gli orrendi film Netflix che fanno apparire morte a 33 giri un capolavoro degno di Sidney Lumet.

L’atteggiamento e l’ammiccare alla cibernetica e all’ambientalismo sono la ciliegina sulla torta. Il problema restano le le composizioni e gli arrangiamenti: un tanto al chilo di vari ingredienti posizionati in stile marketing e il gioco è fatto.

C’è da dire il melassismo contemporaneo ha uno stabilizzatore nel compianto Alexi Laiho, che dopo i primi dischi della sua avventura discografica, andò sul sicuro con una costruzione manierista in tutto e per tutto rassicurante nella sua stabilità, fin nelle copertine. E proprio il connubio di Power e Death melodico è stata una costante negli ultimi vent’anni, un rivolo sotterraneo che ha prodotto una misconosciuta legione di musicisti che ha reso stabile una visione della musica troppo matematica nell’approccio al pubblico.
Gli Unleahs the archers da prodotto sono diventati melassa essi stessi, e vogliono contagiare il Metal.
Chi avrà l’ardire di sfidare l’oscuro ordine del Caos pre, anzi, post-mordiale?

(Tony Paul Bevan Rossi)