Chi fra di voi ricorda quella scena memorabile di Boris, la serie TV, in cui il viziato attore Stanis La Rochelle demolisce con poche fulminee battute il mito di Stanley Kubrick:
Parafrasando quel frammento memorabile, considero Eric Clapton il perfetto esempio di instabilità artistica. Come il regista inglese, “Slowhand” passava da una situazione all’altra, falliva e… no, non falliva, non sempre. Gli Yardbirds, John Mayall, i Cream, passando per i Blind Faith di Stevie Winwood e a seguire il suo zenith creativo, quel Derek and The Dominos considerato fra i dischi più belli e ispirati di ogni epoca.
La sua carriera solista non era ancora partita e già ce n’era abbastanza per riempire i libri di storia: un buon esordio, poi 461 Ocean Boulevard, altro capolavoro; un paio di buoni dischi a fine anni ’70 ma insomma, Clapton era già bollito poco più che trentenne, oltre che consumato da quantitativi di droga mai raggiunti da un qualsiasi essere umano, e per orientarsi in mezzo alla sua discografia serviva già uno bravo.
Escludendo una prima parte di carriera pressoché impeccabile, l’instabilità ha caratterizzato i suoi esordi al pari della qualità della musica prodotta. Non si è mai capito cosa abbia davvero guidato Clapton attraverso progetti tanto estemporanei: libertà creativa? Sopravvenuta incompatibilità caratteriale? Droga tagliata male? Sta di fatto che una volta presi i binari della routine solista sono iniziate le dolenti note.
Con l’eccezione di sporadici episodi, leggasi circa un paio di pezzi per disco, quasi tutto quello che è uscito dalla sua penna dopo il ’78 rientra fra l’imbarazzante e l’indegno per un chitarrista della sua fama; da qualsiasi prospettiva lo si consideri, quella del guitar hero, del bluesman invecchiato o del rassicurante autore pop, quasi tutto quello che ha partorito ha rappresentato sangue per le orecchie dei suoi vecchi fans.
Ma cos’ha effettivamente di speciale Eric Clapton al punto da farlo assurgere a mito vivente? Angus Young, non proprio l’ultimo dei pirla, la pensa così:
“Clapton mette solo insieme pezzi che ha preso da altre persone, come BB King e altri bluesman, e li incastra in una sorta di mix. L’unico bell’album che ha mai fatto è “Blues Breakers”, realizzato con John Mayall, e un paio di pezzi con i Cream. Ci ha praticamente costruito una reputazione sopra. Non ho mai capito perché ci fosse tanto interesse intorno a Clapton sin da subito.”
E’ stato uno dei primi cosiddetti “guitar hero”, in anticipo di qualche anno persino sui vari Jimi Hendrix, Jeff Beck e Jimmy Page; ok, c’erano stati Chuck Berry e Elvis, ma non era la dimensione solista quella che li caratterizzava.
Dicevamo che è passato da un’esperienza all’altra, quasi tutte memorabili all’inizio, via via fatte di alti bassi con il passare degli anni; questo peregrinare, alternare, cambiare il concept delle sue pubblicazioni ha contribuito senz’altro ad allungargli la carriera e a caratterizzarla in qualche modo.
La critica peggiore che gli viene rivolta in modo quasi unanime è quella del songwriting: Clapton scrive pochissimo di suo pugno e riempie i dischi di cover, collaborazioni etc. quel poco che scrive però è oro a 24 carati. Di bluesmen poi migliori di lui sotto qualsiasi punto di vista è pieno il presente, oltre che il passato e anche il futuro.
Prendiamo Joe Bonamassa, senz’altro il chitarrista più rappresentativo e iconico del blues moderno, è uno che surclassa Clapton sotto molteplici aspetti: prolificità, produzione, wall of sound, scelte artistiche, attitudine blues…ma non sarà mai, e sottolineo mai, in grado di comporre una Layla o una Wonderful Tonight, motivo per cui Clapton lo conoscono nonni e nipoti, Bonamassa una nicchia di aficionados e appassionati, per quanto vasta.
Perché tutto questo panegirico, direte voi, dove vogliamo andare a parare?
Beh, nel 2004 c’è un sussulto, una piccola scossa che non passa inosservata. Mentre si crogiola nella sua rassicurante dimensione di rockstar della terza età, Slowhand entra in studio per un disco di inediti le cui session si rivelano (e chi l’avrebbe mai detto) particolarmente improduttive; quasi a compensare tale stallo, Clapton pubblica il suo personale tributo a Robert Johnson, intitolato per l’appunto Me And Mr. Johnson. Un autentico sussulto dopo un letargo lungo decenni, pur con molti interrogativi.
Non ve la meneremo ancora con la storia del diavolo, Robert Johnson, gli incroci e bla bla bla. Sdangher ne ha già parlato qui in maniera più che esaustiva. Stiamo parlando di una specie di Gesù laico, una sorta di amico immaginario per generazioni di musicisti.
«Tutti noi musicisti inglesi dobbiamo la nostra esistenza a Robert Johnson». (Jimmy Page)
«Il suo linguaggio musicale è qualcosa che non avevo mai sentito prima e non ho mai sentito dopo» (Bob Dylan)
«Nessuno ha usato la forma del blues come Robert Johnson» (Keith Richards)
«Il musicista blues più importante che sia mai esistito, la pietra fondante della mia intera struttura musicale, il punto di riferimento verso cui navigo ogni volta che mi sento alla deriva. Il suono della sua chitarra era un’estensione naturale della sua voce, nessuno dei musicisti di quell’epoca suonava nello stesso modo. È stata una sua invenzione». (Eric Clapton)
Il ritorno al blues non costituiva una novità per Clapton, I fans l’avevano già annusato pochi anni prima quando era stato dato alle stampe Riding With The King in coppia con B.B. King e prima ancora con From The Cradle; Clapton è uno che già di suo punta a fare contenti un po’ tutti e che suoni un po’troppo scolastico e pettinato quando si cimenta col blues.
Eppure Me And. Mr. Johnson brilla di una luce diversa, seppur non accecante. Sarà per la magia di quelle ventinove tracce registrate fra novembre del ’36 e giugno del ’37, provenienti da chissà dove, in cui una voce straziante e una tecnica esecutiva fuori dal comune la facevano da padrone. Dal lato prettamente esecutivo, resta sorprendente il fatto che tale Robert Johnson, o chiunque si celasse dietro questo nome, riusciva a suonare contemporaneamente sulla chitarra la linea di basso, quella ritmica e l’assolo… e nel mentre cantava pure.
«Molti chitarristi elettrici moderni sono capaci di farlo, ma ai suoi tempi la chitarra elettrica non esisteva. Lui suonava elettrico anche in acustico. Per lui era una forma di espressione naturale». (Eric Clapton)
“Le sue non erano le solite canzoni blues. Erano assolutamente fluide. All’inizio passavano veloci, troppo veloci per essere comprese. Saltavano da tutte le parti per gamma e argomento, versi brevi e incisivi che sfociavano in alcune storie panoramiche sull’umanità che esplodevano dalla superficie di questo pezzo di plastica che girava.” (Bob Dylan)
E’ innegabile che a un certo punto sia scattato qualcosa nella testa dell’uomo bianco, se tutta questa gente si è messa a coverizzare il repertorio di RJ in massa, ma dov’è tuttavia che il nostro eroe riesce a evocare lo spirito del chitarrista?
Innanzitutto Clapton è stato abile a modellare per l’occasione un sound asciutto e quasi “da saloon”, caratterizzato da contrabbasso, piano, e chitarre slide riconducibile per associazione di idee a quell’epoca storica in cui i brani videro la luce.
Un risultato frutto della collaborazione in console con Simon Climie, suo produttore di fiducia e dal background piuttosto eclettico. Raduna il consueto manipolo di musicisti stellari fra i quali Steve Gadd, Nathan East, Andy Fairweather-Low e Billy Preston. Ok, fin qui le note tecniche, ma la musica?
Non sarà rivoluzionario, geniale e sopra le righe il blues che esce da queste sessions, ma la confezione cucita da Clapton al repertorio di Robert Johnson funziona alla grande. Non necessariamente la esalta ma la rende appetibile un po’ a tutti, anche a quei palati fini abituati ai ristoranti stellati.
In mezzo a quattordici brani che presentano più o meno lo stesso sound, ve ne sono tre che spiccano per i sorprendenti arrangiamenti ragtime e i ritmi incalzanti: l’arcinota They’re Red Hot, già rivisitata in chiave bizzarra dai Red Hot Chili Peppers, le due note in croce di Last Fair Deal Gone Down e soprattutto quella 32-20 blues che oggi fornirebbe più di uno spunto alla generazione della cancel culture:
“se lei non si comporta bene, e pensa di non volermi
prendo la mia 32-30 e la faccio a pezzi”
La 32-20 è ovviamente un modello di pistola che nel caso specifico simboleggia la volontà di potere e prevaricazione dell’uomo sulla donna, ma non è questa la sede per addentrarci su questi argomenti: un’analisi dei testi di Robert Johnson richiederebbe un intero numero cartaceo di Sdangher! e un manipolo di buoni avvocati, probabilmente.
Molti di questi pezzi sono stati riproposti dal gotha del rock n’roll, dai Rolling Stones fino a scendere, e sarebbe sciocco provare a competere con chi ha detto la sua sul tema nei suoi anni migliori (sempre che Clapton ne sia davvero capace).
L’attitudine naturale di Clapton è quella di inserirsi in un contesto strutturato, mettersi al servizio degli altri e suonare rassicurante, soltanto in quei casi riesce a dare il meglio di sé.
Quando avviene, la scintilla scocca per i suoi dischi e per le sue canzoni, raramente per come suona lui, fatto abbastanza strano per una chitarra solista di professione.
Se l’operazione vi ha convinto, sappiate che c’è spazio anche per l’ammazzacaffé: a distanza di pochi mesi Clapton pubblica Sessions For Robert J, che include quei brani che non sono stati inclusi nel disco; superfluo dire che l’uscita è decisamente migliore della precedente.
“Me And Mr. Johnson” è uno di quei dischi che ti spingono comodamente in poltrona, magari dopo che ti sei versato un dito di whisky nel bicchiere fra una boccata e l’altra di sigaro, l’avvolgente colonna sonora di una serena vecchiaia o di un dopocena in famiglia quando i bimbi sono a letto. Nel 2004 Eric Clapton è un ricco signorotto consapevole che questo forse, è il massimo che può dare in questa fase della vita e della carriera. Sarebbe stupido pretendere di più, dopotutto.