PREMESSA: BEFORE THE END
Per me gli Warrant veri sono quelli della versione 2.0, senza più chiodo fighetto e pantaloni in pelle ma con giacche jeans smanicate, camice a quadri e un suono più robusto e meno levigato. Questo perché il mio primo approccio con loro fu con il bellissimo Dog Eat Dog, un disco che per la band aveva il valore di un Viaggio senza vento per i Timoria solo con risultati opposti.
Quindi tutto ciò che era accaduto prima l’ho vissuto come una sorta di “downgrade”. A mio parere, infatti, i primi 2 dischi (Dirty Rotten… e Cherry Pie) per quanto plurimilionari nelle vendite erano acqua di rose rispetto al terzo lavoro. In prospettiva questo mi ha permesso di accogliere i dischi successivi (Ultraphobic e Belly To Belly) in maniera diversa, senza la banale “delusione” per la virata verso i lidi del grunge e dell’alternative.
La differenza la faceva la penna di un Jani Lane che poteva esprimersi più liberamente, trovando una “quadra” artistica in un periodo disgraziato per le band che avevano messo a ferro e fuoco le classifiche fino a pochi anni prima e che nella metà dei 90’s venivano tacciate di opportunismo nel modificare il proprio stile al fine di correre dietro alle mode musicali del momento.
Il punto è che, banalizzando, Lane era più “grunge” di Kurt Cobain ma ancora non lo sapeva…
IN THE END (THERE’S NOTHING)
Quando lessi il titolo di questa song sul retro del cd Belly To Belly degli Warrant (al tempo Warrant ’96) era (appunto) il 1996 e mi trovavo a Torino. Quella sera sarei andato a vedere i Marduk live fuori città.
Ok, mi dissi, ma questi sono i medesimi Warrant di, non dico Cherry Pie, ma almeno di Dog Eat Dog?
Per la verità, Lane e gli altri il passo nel baratro (commerciale) lo avevano già abbondantemente fatto con il precedente Ultraphobic, che invece di essere la colonna sonora della mia spensierata giovinezza fu quella dei momenti più introspettivi e malinconici della mia prima maturità e ancora oggi mi aiuta in certe fasi difficili.
Già dai titoli però su Belly la band sembrava spingersi in un territorio ancora più “minato”, dove ogni barlume di speranza che il gruppo aveva mantenuto, se non altro nella conclusiva e bellissima Stronger Now, sembrava definitivamente perduto.
Avevo ormai capito da tempo che Jani Lane, compositore sopraffino e poeta dell’anima, aveva altre carte da giocarsi oltre quelle vincenti dell’hair metal, di cui lui e i “suoi” Warranti, furono per quanto in zona Cesarini, i portabandiera, con i primi due dischi.
Dog Eat Dog gridava vendetta contro chi li aveva plasmati in “quelli di Cherry Pie”. Erano molto di più o forse lo erano diventati. In ogni caso, pur vendendo un quarto, quel disco dimostrava che c’era molta sostanza nel gruppo.
In Belly to Belly Lane aveva deciso di riversare tutta la sua frustrazione e tutte le sue insicurezze più grandi in un periodo esistenziale e commerciale molto difficili. Il disco sin da subito mi parve un piccolo gioiello di decadenza. Musicalmente la band si accodava sì a sonorità alternative (non uso di nuovo la parola grunge) ma, visti gli argomenti trattati nei testi e il mood generale, forse questo era anche l’unico stile espressivo possibile per lui e la band, al tempo.
In apertura, mi ricordavo di In The End (There’s Nothing), che fin dal titolo era un programma. Poi i miei occhi si posarono su Feels Good, che mi è sempre parso un rivangare quasi sardonico sulla ben più solare e spumeggiante Feels Good To Me di Cherry Pie. Qui “sentirsi bene” era diverso in una vita che non ti sorride più e invece ti pigia a fondo in un buio gelido e orribile. Poi mi colpì il titolo Letter To A Friend, che quando la ascoltai per la prima volta, mi spezzò il cuore.
Zero iper-produzione, schitarrate acide, batteria senza riverbero e tanta atmosfera, tra episodi più “cazzuti” (AYM, Solid) e altri meno urlati (Room With A View). A mio parere però la canzone “simbolo” del disco era posizionata al centro della scaletta e si intitolava Fallin Down. Anche lì, già dal titolo capivo che non si sarebbe trattato di una party song, ma quello che mi sorprese fu che la struttura stessa della canzone richiamava il titolo, con un ritornello che invece di andare in crescendo, come da canovaccio tipico, precipitava, quasi a dare la sensazione di sprofondare realmente in un mare di rassegnazione.
A questo punto chiunque avrebbe preso il CD e lo avrebbe utilizzato come scudo al passaggio davanti agli autovelox, ma in me generò una forte empatia. Lane aveva forse trovato il suo zenith espressivo, riuscendo, alla luce del suo tragico percorso successivo, a trasporre fedelmente in musica e parole il suo tormento interiore, rendendosi così specchio dell’ascoltatore, o almeno di uno come me; riusciva a esprimere quello che sentivo anche io, in una veste una poetica davvero affascinante.
E quindi Belly To Belly, disco bistrattato e dimenticato, è per me una piccola perla spersa in un secchiello di sabbia. Ogni tanto lo tiro fuori dal jewel box e “parlo” con Jani Lane rassicurandolo del fatto che almeno qualcuno il suo lato più terribile e inquietante lo ha apprezzato e continua ad apprezzarlo veramente molto.
p.s. Se ve lo state chiedendo, la sera che poi sono stato al concerto i Marduk spaccarono alla grande (e c’erano pure i Mysticum)!
(Demian De Saba)