Ascolti Catch Thirtythree e poi muori di fame e sete…

Il 2005 iniziò con i Meshuggah che presentavano il loro disco fatto da una sola canzone. Se ne parlò per qualche mese. Se ne parla ancora, come potete vedere. Anche chi non aveva grande ammirazione e interesse per la band svedese, spese qualche parola sull’album Catch Thirtythree, scritto così, a lettere e non a numero. Oggi è considerato uno dei momenti salienti della loro carriera. C’è chi insiste a dire che sia un episodio a parte rispetto al resto dei loro dischi monolitici; un esperimento progressive nell’accezione dei Meshuggah; vale a dire un ritmico cantare formato di due, massimo tre note che anticipano o scavallano un rotatorio cammino di batteria che come una spirale ci sprofonda sotto terra. “Cosa c’è di tanto complicato?”, rispondono con un certo divertimento il chitarrista Fredrik Thordendal o il batterista Thomas Haake a chi nelle interviste ancora una volta puntava tutta la propria curiosità su quanto la band amasse la musica complicata, sghemba, così contorta da mandare fuori di testa le menti. “Si esagera. Noi saltabecchiamo intorno a un banale quattro quarti, così da permettere al pubblico di fare sì con la testa mentre ci ascolta e allo stesso tempo di manomettergli il cervello mentre sopra di lui passano stormi di riff affamati”.

Devo ammettere che i Meshuggah sono stati l’ultima cosa davvero interessante nella storia del metal. Hanno raso al suolo il genere e vi hanno edificato degli strani edifici dalle geometrie affascinanti ma con qualcosa di sostanzialmente sbagliato, come direbbe Lovecraft. Una parte del pubblico li ammira in modo religioso, come avviene per molte band che negli anni conducono avanti il proprio discorso in modo coerente e austero.

C’è gente che vivacchia intorno al gruppo come un esercito di frati asociali pollaierebbero alle basi di un gigantesco monastero, imponente e nero di fuliggine luciferina. C’è chi ha provato a minimizzarli, addirittura sminuirli e annientarli come noiosi, sempre uguali a se stessi; addirittura finiti. Ricordo, a proposito di Catch Thirtythree che il bullo della recensione Aldo Luigi Mancusi li silurò con uno zero spaccato. Ma non fu solo lui. Più di un “esperto” ammise una certa perplessità davanti a un album che avrebbe potuto raggiungere nuove vette di imprendibile tecnica e ritmica visionaria, ma che in fondo si riduceva a una sequela di momenti musicali più o meno interessanti, più o meno… e che raramente “riescono a travolgere l’ascoltatore” (vale a dire loro che scrivevano).

Se cercate le recensioni del 2005 di Metalitalia e di Metallized, le webzine già esistenti all’epoca, non avrete il solito pistolone celebrativo ma un interessante esame pieno di dubbi “sul passo falso dei Meshuggah…”

Purtroppo il treno delle recensioni non poteva permettersi di dedicare mesi, anni a un lavoro del genere. Anche oggi, pur approcciando lavori di trenta, quarant’anni fa, con la voglia di riconoscerne la grandezza, adducendo le ragioni del tempo, in fondo chi scrive di metal continua a fare, di corsa e contro voglia, qualcosa che non decide lui. Esattamente come si dedica alla cascata di album che le etichette continuano a mandargli e di cui tenta di liberarsi recensendo diligentemente e in maniera forsennata, così rispetta le celebrazioni calendariali: ventennali, decennali e così via di questo o quel titolo, trattato con guanti di velluto del senno di poi e di superlativi alfanumerici.

E così nel 2005, il treno delle recensioni non si fermò a lungo su Catch Thirtytree. Poteva fare poche soste vere e quella era una. I Meshuggah se l’erano guadagnata con dischi fenomenali come Chaosphere, E un disco come quello non offriva molte scelte: o lo si prendeva per un capolavoro sulla fiducia, oppure lo si stroncava senza pietà gridando che, come il re, anche quei quattro svedesi erano nudi, cazzo.

E ora siamo qui, a vent’anni dall’uscita (senza averlo fatto apposta stiamo anche noi partecipando a una celebrazione) e dobbiamo ammettere che questo è un lavoro che continua a essere tremendamente spigoloso. Sotto la coltre di arpeggi dissonanti e delle solite ritmiche stregate, delle urla monogutturali di Jens Kidman, c’è qualcosa che invece di farsi catturare, continua a negarsi e sfuggire.

Intanto mi sorprende che pochi tra coloro che hanno tentato nei decenni di analizzarlo, si siano soffermati sempre di sfuggita sul testo di questa gigantesca canzone. Magari costoro lamentano una vistosa incoerenza strutturale nel disco che si vorrebbe composto di un solo brano, senza considerare che è il testo a tenere insieme il brano davvero; ed esprimere l’idea molto originale e ambiziosa di un concept sull’incapacità di noi uomini di capirci qualcosa di noi stessi e dell’esperienza su questa terra.

Almeno per me si tratta di questo.

Quando Jens urla non tanto la frase più celebrata e sicuramente magnifica nella sua perentoria sincerità:  The struggle to free myself of restraints, becomes my very shackles, espressa con voce quasi pulita, in un momento in cui la musica si ferma e resta solo lo spazio di un concetto sullo sforzo di liberare se stessi e scoprire che diventa proprio questo sforzo, la più grande e inscalfibile di tutte le catene – dicevo, quando lui urla cose come: “Io sono il pensiero che non mi è mai passato per la testa”, dovremmo renderci conto di trovarci davanti, non tanto alla prova di forza di una grande band musicalmente audace e decisiva nell’economia del metal moderno, ma a una gigantesca e autentica poesia. Di quelle che forse sarebbe meglio fingere di non aver sentito.

Si tratta di un testo che dice cose difficili da mandar giù, sapete? Mi viene in mente solo Johan Edlund così in gamba da scuotermi più con le parole che le chitarre o i ritmi di batteria complicati.

Catch Thirtythree è una lunga poesia che i Meshuggah nascondono sotto il martellame di riff djent e urla caotiche “tipiche dei Meshuggah”. Sicuramente non è, almeno per quel che mi riguarda, un lavoro riuscito. Ha l’ambizione e il coraggio di un salto nel vuoto che però non si concretizza. Nonostante questo gli va riconosciuto che prova a dire qualcosa di importante e non tanto con i riff.

Non ci dimentichiamo due cose: la band trasformò un vaffanculo alla Nuclear Blast in qualcosa di molto più costruttivo e per quanto molti di noi siano abituati a indicare con dei nomi i vari momenti del disco, si tratta di una sola canzone. E questa canzone ci urla contro cose che riescono a destabilizzarci molto più della musica contorta in modo ormai quasi prevedibile e rassicurante.

Ascoltare tutta insieme la canzone Catch Thirtythree non è un’esperienza appagante. Ci si distrae, la mente chiede di riposare, cerca con mani ansiose l’appiglio di una melodia portante, un fraseggio che possa dare qualcosa, anziché prendersi tutto: vista, udito e speranze, ogni volta che proviamo a pescare in quel torbido mare agitato.

Il metal degli anni 90 si distingue da quello anni 80 perché ha incominciato a chiedere invece che dare e sempre di più. Al punto che per godere i frutti di alberi come Neurosis, Opeth o Meshuggah, si sono dovute sviluppare mani più nodose e vista più profonda mentre ci si arrampicava e ci si feriva su quei rami pieni di aculei e piccole, stronzissime bestie rabbiose pronte a morderci e farci precipitare giù.

Catch Thirtythree, in questa metafora botanica è un gigantesco albero con dei frutti che non tutti sono in grado di riconoscere e consumare. Frutti aspri e poco nutrienti, molto meno di quel che la pianta, con la sua fattezza robusta e rigogliosa di fronde e di fiori, lascerebbe supporre alla mente biologica di un cercatore-raccoglitore. Ma là fuori è tutto finito, non c’è altro da mangiare. Dobbiamo affrontare quella pianta se non vogliamo morire di fame nel mondo fottuto in cui ci troviamo a sopravvivere.

Se invece di paragonarlo a un albero dopo l’apocalisse lo trasformassimo in un romanzo post-apocalittico, allora sarebbe uno di quei giganteschi malloppi privi di una storia, un possente e visionario saggio filosofico per chi è ancora ha abbastanza dita da tenere in mano un libro e sfogliarne le pagine. Quelle parole così folli sono intense, e possono contenere qualcosa di prezioso che i sopravvissuti forse un giorno riusciranno a comprendere. Così come per lo Zarathustra di Nietzsche in un mondo che ormai non sa più cosa sia, molti uomini tenteranno a Catch Thirtythree e proveranno ogni volta ad attraversarlo, si perderanno e torneranno indietro per tracciare nuove mappe fallimentari.

Questo album avrebbe dovuto essere l’ultima testimonianza di una band poi impazzita e morta di fame e sete in qualche posto sperduto pieno di viveri e di acqua.