Il mondo non si è mai curato dei Demon, a eccezione di un gruppo di appassionati, più o meno sempre gli stessi da oltre quarant’anni, con l’aggiunta di qualche cosplayer dell’ultim’ora. Per qualcuno un nome del genere evocava cose brutte ed era poco spendibile presso il grande pubblico, finendo così per scoraggiare qualsiasi velleità di successo.
Anche se fosse vero, un nome del genere non poteva certo intimidire il metallaro medio; tenderei a non crederlo. Magari è stata tutta una questione di stile o meglio, di svolte stilistiche.
Pensateci bene, uscite dalla cucciolata della New Wave Of British Heavy Metal senza aver praticamente nulla da spartire, in termini di sound, immagine e tutto il resto (neppure di management, tale Mike Stone segue la band dagli inizi ed è ancora con loro) con gli altri membri della famiglia.
Fate uscire due dischi, mi correggo, due autentici capolavori di hard rock oscuro e ispirato, poi passate nel giro di quattro anni al neo prog rock e all’AOR, per sembrare a vita la versione incazzata degli Uriah Heep o dei Deep Purple.
Nessuna delle piroette messe in atto fra un disco e l’altro ha mai portato beneficio in termini di visibilità o popolarità, anzi. L’impressione è che qualsiasi cosa i Demon decidessero di fare, la loro dimensione naturale fosse destinata a rimanere comunque quella della cult band.
La scorsa settimana il gruppo ha tenuto il suo primo concerto italiano in dodici anni, ma non è di questo che voglio parlare; non dobbiamo guadagnarci il pass da parte di nessuno, e sarebbe ingiusto chiosare i Demon come semplice tribute band di se stessa.
Ho provato a trovare il concerto, un po’ alla Sdangher maniera, seguendo quello che mi diceva l’istinto. L’ho fatto perché ritengo che questa band meriti davvero di più di quello che ha raccolto e lo dimostra l’influenza latente su alcune band decisive negli anni successivi.
I Demon hanno ancora un talento naturale nel comporre autentici inni. Attenzione, non parlo di canzoni da birreria del basso Baden Wurtenberg, parlo proprio di hit, quelle canzoni da tre-quattro minuti che ti entrano come un chiodo nel cervello e che si liberano in un chorus totale dopo che hai preso a cazzotti l’aria per tutta la durata della strofa.
Sfido a trovare un gruppo dal seguito così ristretto capace di farti cantare in quel modo. Riascoltando oggi i primi due dischi mi sembrano la versione analogica dei Ghost.
Parlo ovviamente di Night Of The Demon e The Unexpected Guest, due lavori che potresti mettere su anche in un viaggio in macchina da quanto scivolano via bene. Estetica horror, testi finto esoterici, sound tipicamente hard rock che lambisce il metal, capacità di piazzare il gancio in pezzi brevi. Insomma, bisogna essere bravi davvero per farlo su un’impalcatura sonora di prim’ordine.
Night Of The Demon, Nightmare, Sign Of The Madman, Strange Institution, prendeteli tutti quanti e metteteli in fila, è una sequenza di brani da cantare a squarciagola, costruiti su riff talvolta elementari un po’ alla maniera dei Magnum del periodo di mezzo – gruppo che suonerà familiare anche nei lavori successivi.
Fin dalle prime note di Night Of The Demon serpeggia quella sensazione da B-Movie alla Alice Cooper, o da film slasher americano alla John Carpenter, insomma di chi vuole fartela fare addosso dalla paura ma sotto sotto ti sta perculando.
Erano un nome difficile da piazzare sulla mappa della New Wave Of British Heavy Metal, anche se oggi come ieri vengono comunque inseriti in quel filone: pestavano duro senza esagerare, ma avevano un cantante alla Paul Di’Anno con il fascino della voce “raspina” ma flessibile, come dimostreranno le opere successive. Oltre a un chitarrista, il compianto Mal Spooner, con un gusto per gli assoli con pochi eguali in UK.
I Demon spiccavano in mezzo al marasma dei gruppi inglesi da dopolavoro, eppure non avevano appeal. Sarà stato il baffetto di Dave Hill o quei travestimenti ai limiti del ridicolo, fatto sta che la band raccoglie poco pur avendo le hit giuste per spiccare il volo, classe e verve artistica. I Demon guardavano già avanti al punto che dopo due album col botto (da avere e da cantare entrambi, meglio ricordarlo) spiazzano pubblico e critica con The Plague.
Il disco è un gioiello di audaci commistioni fra AOR e progressive rock e dimostra che il coraggio paga. I Demon sembrano una band che suona quel genere da sempre, eppure restano in costante movimento e non accennano a fermarsi.
British Standard Approved è un concept abbastanza strano, velatamente politico, sulla condizione della working class in un transatlantico di inizio ‘900; potrebbe averlo concepito Peter Gabriel o Alan Parsons, intriso com’è di elettronica, presi però in una giornata storta.
E il disco non è male ma neppure indimenticabile e non il più estremo: in questa corsa forsennata verso il nulla, la band perde giovanissimo Mal Spooner per una polmonite e si seppellisce sull’AOR dei poveri di Heart Of Our Time, disco dettato probabilmente dalla voglia di cimentarsi con le sonorità in voga in quel momento.
Dopotutto non sono pochi i metallari che negli anni ’90 in piena adolescenza hanno riservato uno spazio negli ascolti e nel cuore per Ten o Nevermind: ecco, Heart Of Our Time nasce con quelle premesse metodologiche.
Stiamo parlando di opere non pervenute, pressoché ignorate da tutti, inclusi i loro autori.
Qualche anno di pausa e la band incappa in un momento di grande ispirazione con tre dischi clamorosi: “Breakout”, “Taking The World By Storm” e “Hold On To Dream”. Soprattutto i primi due sfiorano i livelli degli inizi con il solito hard rock gonfio e zeppo di anthem.
Oltre ai salti stilistici è il mood che si ribalta totalmente, complici la scomparsa del chitarrista e l’amarezza per il mancato successo, ma anche il contesto storico del loro paese in piena era Thatcher.
Ciò che all’inizio sembrava vagamente luciferino, ironico e sbarazzino diventa più cupo, malinconico e di protesta, con testi e riflessioni incentrati sul sociale.
Nel ’92 esce Blow Out, un altro disco fuori dal tempo che regala comunque qualche bel momento, poi d’un tratto la band dice basta. Dieci anni dopo i tempi saranno maturi per una reunion con una formazione rinnovata e la solita periodica sfilata per nostalgici sui palchi dei festival di genere.
Da allora si sono susseguiti diversi dischi piuttosto buoni che non regalano sussulti ma neppure particolari spaventi dovuti a divagazioni stilistiche.
Ma chi sono i Demon oggi?
Cinque facce prese da un film Monty Python, un manipolo di inglesi in pensione di quelli che stanno a svernare alle Canarie, fra una partita a freccette e una Stout sgasata.
A settantasette anni Dave Hill è il ritratto dell’uomo felice, provate a mettervi nei suoi panni, guidare questa band è stato una sorta di “win for life”, sai di avere vinto la lotteria ma ne avrai un poco alla volta per tutta la vita, quanto basta per godertela in serenità, girando il mondo fra musica, amici e supporters sinceri.
Ma come mi diceva un mio vecchio capo, non pensare ai guadagni facili, inizia a darti da fare che magari col tempo qualcuno si accorgerà di te, e in effetti col passare del tempo la band si è guadagnata la fiducia di tanti ascoltatori, non solo per aver firmato capolavori come Don’t Break The Circle, One Helluva Night o Life On The Wire, ma anche per la perseveranza con cui ha mantenuto fede al proprio percorso, mettendo in conto qualche rischio e tante opere di livello assoluto, fregandosene dell’indifferenza del grande pubblico.
A suo modo, una lezione di stile.