Blackfinger – Il dito nero nella piaga!

Blackfinger.

La band di Eric Wagner.

Il cantante dei Trouble.

Facevano doom, almeno nei primi album, già.

Ok, ci siete?

No?

Allora non ci sarete mai. Tanto vale ignorarvi e continuare. Blackfinger vuol dire dito nero. Nella smorfia napoletana significa “sogno”. Non credo che Eric avesse in mente questo il giorno che scelse il nome. E nemmeno che l’ennesimo progetto basato sul suo nome e poco più, si sarebbe concretizzato in una vera e propria band. Però i Blackfinger sembrano parecchio onirici, tra le altre cose e di sicuro meriterebbero attenzione.

I progetti.

Le band.

Avete chiaro in testa che il 50 per cento delle uscite discografiche oggi appartengono alla prima categoria, vero? Non ci sono quattro o cinque persone che lottano e sudano insieme per la realizzazione di UN miraggio comune.

No, ci sono un insieme di tizi che un tempo lottavano e sudavano insieme, i quali ora sono andati tutti per la propria strada e hanno smesso di sudare. Comodi comodi compongono gruppi, non più canzoni. Forti del proprio percorso artistico passato, sfruttano la sola rendita che gli resta, anche se in diminuzione perenne: la fiducia dei vecchi fans. Raccolgono alcuni comprimari e ogni progetto composto lo vestono da gruppo: fanno un artwork, ideano un look, un logo, una filosofia e… ci un disco, certo.

Poi buttano tutto nel cesso della rete e sperano che galleggi. Il più delle volte non è così. Bisognerebbe impedire a queste persone di insistere con una tattica alla “do cojo cojo” perché intasano le webzine, la nostra attenzione, la loro stessa esistenza creativa, ma temo non sia facile e quindi lasciamo stare. Ci sono problemi più seri di cui NON occuparci.

Ormai non c’è più alcun denominatore che faccia ecologia delle band metal. I dischi non si comprano, i concerti non si vanno a vedere. Eppure i gruppi e i progetti pullulano peggio dei nonni fuori dalla posta il primo del mese.

Fare un album nuovo del resto costa così poco che anche io se volessi, con duemila euro potrei tirarne fuori uno e metterlo in giro. Sarebbe il mio costosissimo hobby da rockstar.

Sono tutte cose scontate da dire ma la verità è che se ti piace fare un giro sull’ottovolante dell’heavy metal, basta pagare.

Nel mondo discografico c’è ancora chi ci guadagna. Non credete a chi vi dice che ormai nessuno vede più un soldo. Sono i cinici, gli omini di burro che intascano.

Chi sono? I proprietari dei locali, quelli delle sale d’incisione, i fonici, le etichette rinomate, ormai senza più ricavi per via tradizionale, che mettono a disposizione vari pacchetti a chiunque voglia essere sponsorizzato da loro. Se gli dai 10000 euro ti offrono questo e questo. Se gliene dai 20000 ti danno anche quest’altro. Le piccole band sono tipo gli abbonati Sky, non dei gruppi che meritano supporto, sudore, lacrime, ma privati clienti che spendono fieri e apprezzano la vasella in omaggio.

I soldi delle band giovani e meno giovani oggi non sono più un investimento ma un furto. I risparmi che tu getti nelle grinfie di questi gatti e queste volpi produrranno gli stessi risultati del campo dei miracoli. Non la vedi così perché tu non sei cinico, tu sei il sognatore. I sogni sono il carburante del commercio. Nel senso che chi ci spera, spende. E finché spende spera. E finché si spende, c’è sempre qualcuno che guadagna.

Tutto questo per dire dei Blackfinger. Loro fecero un disco modesto nel 2014. Nessuno lo ricorda, giustamente. Nessuno li risarcì per il loro spargimento artistico. Ma gli artisti hanno imparato una cosa fondamentale, ora che non c’è più grana per loro. Il bello non è la Cadillac o la villa con piscina; non lo sono le groupies o la folla oceanica che grida il nome di un nuovo dio vestito di borchie e tenuto su con la coca e lo scotch (nel senso del whisky), il gusto è la creazione, la realizzazione di un brano, il suono della chitarra che taglia in due l’aria fitta di un palazzetto o di una birreria. Poco importa il successo, il denaro. Certo… e chi li ferma più?

Eppure lo sprone commerciale faceva pensare in grande gli artisti. Li spingeva a crescere, tenersi aggiornati, provare a stupire e sollazzare il pubblico. E questo andava di passo con l’ego.

Oggi uno come Eric Wagner ha ancora un bell’ego e questo lo sprona a far dischi, mettere su band e non tornare con i famosi Trouble perché devono andarsene affanculo, ma nel mentre costui, che crea e crea e suona e suona, a cosa pensa? Cosa sogna? Cosa spera di ricavare da tutto questo? Di fare un buon lavoro, certo. Qualche concerto. Amen.

Nonostante ciò, il secondo album dei Blackfinger è bellissimo. When Colors Fade Away. Segnatevelo, è tra le migliori uscite di quest’anno. Dico sul serio. Ma, mi chiedo, cosa sarebbe se a dargli la spinta fossero stati demoni del riscatto, della rabbia, dell’ambizione e non quelli della resa, la frustrazione, la stanchezza del signor Wagner? Cosa avrebbero fatto i Blackfinger con le motivazioni e un contorno degno dei Trouble del periodo Geffen/Music For Nations?

Anche così è sopra la media (parliamo di una media davvero bassa) ma sprigiona l’aria consumata del cubicolo senza finestre in cui è stato concepito. Da chi, poi? Una band? Ma certo che no. C’è sempre Eric Wagner e con lui tre musicisti senza passato discografico, più un tale di nome Terry Weston (già nei Dream Death, Penance e altra roba che conoscono in due).

Eppure stavolta le cose filano bene. Sin dalla canzone-che-da-il-titolo-al-disco, messa in apertura giusto per bruciare subito i cattivi presentimenti degli ascoltatori. Bellissima, un lento di cinque minuti che raccoglie tutto il background di Eric Wagner, dal doom sabbath del riff portante, all’interpretazione plantiana che inanella gli accordoni arpeggiati e veleggia su di essi al largo delle rive dell’Inferno e del Paradiso.

Il resto dell’album mantiene un’atmosfera uggiosa, greve, con un suono che guarda alla sacra scuola dell’hard rock, senza però fare la lezioncina dal pulpito, tipica delle folle di veterani, cresciuti a pane e “robba bòna” e che invece di approfittare di un disco per esprimere qualcosa di profondo, arringano le generazioni dei comparti stagni accusandole di ignoranza e pigrizia mentale.

Purtroppo attorno a un prodotto di qualità come questo c’è un deserto così ampio e assassino che ci morirebbero di stenti persino i Kyuss del 1994.

Di conseguenza temo che tra un anno sarò forse io e qualche altro povero pinocchietto a dedicargli un pensiero.