Men – Il tunnel da superare e il suicidio del politically correct!

Men è un folk horror ma non solo. In un certo senso è come se l’elemento pagano, silvano, sotterraneo, sia un di più. Non c’era bisogno di portare tutto a quel livello panico, ancestrale, o almeno è ciò che ho pensato per buona parte del film.
E più questo elemento emerge, soprattutto dalla metà, più ho avvertito un senso di noia. Dopo la visione però ho iniziato a pensarci su e ho capito che Men è un gran film. Dice forse male ma dice qualcosa di profondamente vero sul nostro tempo e ora tento di comunicarlo a voi e a me stesso in questo pezzo. Partiamo dall’inizio. C’è una ragazza che si sta recando in una meravigliosa villa nella campagna inglese. Una serie di flashback ci raccontano da cosa lei abbia assolutamente bisogno di riprendersi: il marito, davanti alla prospettiva di una separazione, si è suicidato davanti ai suoi occhi.

Tra i due le cose non andavano più. Lei era stanca delle manipolazioni di lui, le violenze anche fisiche. Era un uomo davvero in crisi nera come la sua pelle nera. Ma la negritudine non c’entra nulla. Siamo stati abituati a vedere i neri al cinema e ogni volta riflettere sulle loro condizioni sociali, economiche, culturali nell’America retriva del sud o in quella selvaggia e a compartimenti stagni del nord. Basta pensare a Spike Lee, Steven Spielberg o i Robinson.

Ora, con la questione del politicamente corretto, i neri sono ovunque e perdono sempre più il sostrato razziale e culturale. Sembrano come dei pupazzi marroni messi in uno scenario troppo mono-tonale, con la speranza lasciva, manipolatoria, occulta, di contro-diffondere un grande bisogno di integrazione e di uguaglianza sociale.

Purtroppo, se usi il linguaggio coercitivo delle pubblicità è come fare beneficenza con gli strumenti che usa la mafia. Puoi anche riuscire a mandare i soldi ai poveri, ma qualcuno sanguinerà per questo.
Il nero di Men è solo un uomo inglese con le labbra molto carnose e un’abbronzatura eccessiva. Il suo dolore, la sua decisione scapestrata di uccidersi anziché consentire al divorzio, non ha nulla di etnico. Si comporta esattamente come un qualsiasi bianco medio ego-dionisiaco cresciuto in un ambiente borghese europeo. E si suicida, che secondo me è la parte migliore, perché è la metafora ideale di ciò che il politically correct dovrebbe fare o magari sta proprio facendo in questo momento.

Questa omologazione da neri-bianchi infelici allo stesso modo, fa vomitare perché non è reale, non so cosa ne pensiate voi. Io preferisco l’eccesso opposto, vale a dire un nero che invece di ammazzarsi, prepara una bambolina voo-doo come gli ha insegnato suo nonno, per far morire l’ex moglie. Almeno in quel caso non mi dimentico che è un fottuto nero emerso da una genetica schiavizzata e non un bianco colorato di marrone che ascolta i Maneskin e non sa chi sia John Lee Hooker.

Ciò che non capiscono i predicatori del politicamente corretto come Netflix è che l’arte deve raccontare la realtà com’è o come potrebbe essere e non come DOVREBBE essere. Anche perché un mondo in cui un italiano, un creolo, un ispanico e un cinese vanno tutti insieme allegri nello stesso furgone a farsi squartare dalla motosega di un Leatherface nero proprio non mi piacerebbe. Mi ricorda le barzellette degli anni 80, piuttosto. C’era un italiano, un francese e un messicano su un’aereo e…

Ma torniamo a Men. Il marito si suicida. E lei va in pezzi. Anche se ricorda continuamente a se stessa di non avere colpe per il gesto estremo che lui ha compiuto, in profondità non ci crede e si sente fottutamente in colpa. Lei è una donna che vive di sensi di colpa e spirito di salvazione, altrimenti non avrebbe trascorso un’ora soltanto con l’uomo che invece ha sposato tentando di amare e salvare.

Va in campagna, in una bella villetta nel verde. Ad accoglierla c’è un tipo abbastanza curioso e un pizzico inquietante. Non capiamo bene perché, almeno all’inizio. Poi ci accorgiamo che la paura deriva da qualche vecchio pinocchio teatrale della nostra infanzia, con parrucche e baffi posticci che pendono dalle facce inespressive di qualche manichino scocciato, in un corridoio buio e troppo silenzioso.

La poverina sembra trovare un po’ di tregua nelle stanze dall’eleganza rustica del villino. Espira soddisfatta ed esce a fare una passeggiata nelle campagne intorno. Lì il verde è lo stesso troppo chiaro e abbagliante di Annihilation, altro film diretto da Alex Garland e infatti oltre al regista, anche il direttore della fotografia è lo stesso: Rob Hardy.

Ma extra-diegetica a parte, la ragazza, che si chiama Harper Marlowe ed è interpretata dalla brava e intrigante Jessie Bukley, piano piano avverte un senso di sollievo che affiora sul suo viso, come un leggero sorriso, come chissà da quanti mesi non capitava. Qualcosa migliora? Speriamo. Sarebbe ora di tornare a respirare più regolarmente. Poi camminando e ammiccando al verde, lei arriva davanti a un vecchio tunnel.

Il tunnel all’inizio la inquieta, poi però tenta un vocalizzo e si accorge che là dentro si produce un’eco meravigliosa. Così lei inizia a giocare col tunnel. Avendo un grande talento musicale (è anche pianista) lei improvvisa un intreccio vocale davvero fico che neanche usando un sampler dei Depeche Mode.

Poi però la smette all’improvviso perché si accorge che, all’altra estremità del tunnel, c’è un uomo che la osserva.
Si paralizza e non sa bene come prenderla. Si sente forse imbarazzata, da quanto tempo il tizio è lì che la spia mentre lei ugoleggia dentro al tunnel?

Non fa in tempo a porsi altre domande perché lui inizia a correrle incontro e questo la spaventa da morire.

E così Harper scappa e torna a casa. Prima di rientrare avvista un tizio nudo che la fissa in lontananza ma fermiamoci qui.

Inevitabile pensare al simbolismo psico-terapeutico del tunnel. Quando viviamo una fase di grande sofferenza, con un disturbo post-traumatico e tutto il resto, il dolore ci viene descritto generalmente proprio così: un tunnel da attraversare.
Il dolore arriva e sembra prendere possesso di noi, ma come tutte le altre emozioni, non dura molto. È la mente che lo rinnova anche per anni. Il ciclo del dolore in sé però è breve e può essere percepito come un’onda che sale e poi scende. O visivamente come un tunnel buio che dobbiamo attraversare fino all’uscita se vogliamo superarlo.

Ecco, immaginatevi il tunnel del vostro dolore e il dolore dovuto alla morte di un uomo che vi amava. Harper avrebbe attraversato metaforicamente il tunnel, dando a quella passeggiata una valenza ancora più rigenerativa e rituale sul superamento del dolore, ma l’uscita del tunnel è bloccata da un uomo che non si limita a star lì, le corre incontro in modo aggressivo, come volesse farle del male.

Non puoi sfuggire al dolore così a buon mercato, canterellando nel tunnel buio della sofferenza più nera. Ecco cosa sembra dirle Garland. Torna nel pozzo da dove sei venuta, non puoi cavartela così facilmente.

Harper dovrà vedersela con un intero villaggio di uomini, tutti con qualcosa di molto strano e perturbante che non riesce a individuare. Hanno dei comportamenti sessisti, maschilisti, molto giudicanti, ma non è tanto quello.

Tutti loro si rivelano molto somiglianti fisicamente, come fossero tanti fratelli.

L’attore Rory Kinnear li interpreta dal primo all’ultimo, dando al film una valenza sia inquietante che comica, in stile Peter Sellers ma soprattutto Little Britain. Guardatelo in versione sacerdote e ditemi se con quei capelli e le lenti a contatto nere non vi ricorda proprio David Williams.

Comunque, da qui in poi il mistero da svelare è uno solo. Che cazzo di posto è quello, è una roba tipo Calvaire? E perché piano piano tutti gli uomini assediano la protagonista? Cosa vogliono da lei? C’è di mezzo una creatura dei boschi, quello che all’inizio sembra una specie di alieno e che invece nel finale del film assume sempre più le fattezze di Calibano e poi ancora del Puck Shakespeariano.

E verso la conclusione tutto diventa così paganesco, simbolico ed esoterico che sembra quasi di essere tagliati fuori dalla reale comprensione del film. Ma l’abbuffata carnale alla Yuzna, con tutte quelle gravidanze e contro-gravidanze che dal demone boschivo si propagano per il villaggio infestato, assumono una valenza psicanalitica che potrebbe rappresentare non tanto il senso della vita, della fertilità e della relazione tra uomo e terra di un popolo ormai estinto, quanto il cammino del dolore nella mente di una spaurita creatura femminile affetta da nevrastenia post-traumatica di oggi.

Ditemi che differenza c’è tra la liturgia folk che ribolle sotto le fondamenta delle antiche chiese cristiane d’Inghilterra e le metaforiche incarnazioni del dolore, delle ferite animiche e dei percorsi da fare per liberare se stessi che professano i terapisti sempre più divisi tra strategia e alchimia del web?

Si tratta della combutta junghiana tra psicanalisi ed esoterismo? L’alleanza segreta e infingarda tra scienza e religione? Ma non la religione che conoscete voi, parliamo di una religione più antica e che, rispetto a quella Cristiana non combatteva le pulsioni naturali ma le fertilizzava e sfruttava, incanalandole in maniera più proficua.

Ecco per me di cosa parla Men.

Quando vediamo il prete che tenta di possedere Harper Marlow con la mano divisa in due dal gomito in giù, non siamo di fronte al solito Pete Walker e la repressione nociva del cattolicesimo sulle pulsioni naturali, ma qualcosa che va oltre i moralismi e richiede una sapiente lettura allegorica.

Nel momento in cui il dio del bosco gonfia la pancia prima di espellere l’ennesimo prototipo zotico della ruralità inglese non inorridiamo come se fossimo al cospetto di un diavolo che vomita piselli su una croce ma lo accogliamo con lo spirito curioso e divertito di quando ci troviamo di fronte alle antiche dee della fertilità esposte in una teca museale.

E ci domandiamo lo scopo di una simile configurazione gravidanziale finché la catena dei parti non riconsegna ad Harper il marito nero suicida. Allora lì emettiamo un “aaaah, ecco”

E capiamo di aver assistito non tanto alla concretizzazione invasante di un’antica leggenda, che riemerge da uno stagno dimenticato e dilaga nel salotto buono di una donna nevrotica in cerca di risposte che la razionalità non può offrire, ma alla raffigurazione simbolica di ciò che lei sta vivendo.

L’allegoria è messa lì in po’ a cazzo, secondo me. C’è il corvo morto, ci sono le mele che cadono dall’albero, lei che ne mangia una appena arrivata, con il pittoresco proprietario della villa che le intima, anche solo in modo scherzoso, di non toccarle. Cosa dovremmo farcene di questi elementi?

Non si capisce, ma poco importa.

Finché nell’ultima scena, quando la proiezione spettrale di lui e la materialità eterea di lei sono seduti su un divano, uno accanto all’altra. In un dialogo definitivo con se stessi che la donna ha il coraggio di tenere solo dopo aver subito quell’abbuffata splatter-gore da ostetrica heavy. “Ma tu cosa volevi da me?” chiede al marito.

“Che mi amassi”

Lei lo guarda e non pensa alla mancanza di senso della cosa, forse è impazzita oppure solo in un sogno, ma intende la profondità del senso di ciò che le sta capitando in quel dannato villaggio, nelle rassicuranti stanze della vecchia casa campagnola. Peccato che noi spettatori non lo intendiamo così bene come la protagonista e rimaniamo un po’ dubbiosi e confusi.

Men resta un film non completamente riuscito. Nel senso che non sa bene neanche da solo cosa stia cercando di dirci, ma questo suo limite lo rende senza limiti di scervellamenti simbolici, innescando una serie pressoché infinita di gravidanze interpretative.