Ve li ricordate i Manic Eden? Fecero un disco che levati…

I Manic Eden… Ma certo, i Manic Eden, come no? Ehm… Beh, i supergruppi sapete come sono fatti. Vengono su con grande facilità, quasi sempre deludono e poi, per fortuna, non durano. O almeno una volta non resistevano a lungo. Pare che oggi, per dire, i Black Country Communion dovremo abbatterli per liberarcene. Ma nei primi anni 90, anche i migliori e più fortunati casi (Bad English) si dissolvevano come i buoni propositi di una dieta il 2 gennaio. Se non si trattava della ego battle era un problema “egonomico”. Soprattutto il dinero  sgretolava le supa-dupa bands dei vecchi tempi. C’era da fare i soldi o morire. Funzionava così. Se non vendevi abbastanza era meglio salutare e inventarsi altro. Un gruppo si teneva in piedi, a certi livelli, su delle cifre che oggi basterebbero agli In Silent Wake per altri vent’anni di lavori da sei e mezzo. Allora era una questione di sopravvivenza. Per gente come Adrian Vandeberg, incidere, andare in tour, significava sussistenza. Bisognava trovare la situazione giusta per continuare a guadagnare. Per lui, Rudy Sarzo e Tommy Alridge fu impossibile dire di no quindi alla riconvocazione del boss David Coverdale.

Del resto i Manic Eden nacquero perché i Whitesnake erano fermi a tempo indeterminato e quando ripartirono, si sciolsero. Dopo un decennio glorioso che li aveva portati in cima alle classifiche americane, i Whitesnake dico, il loro leader era sbroccato, aveva detto a John Kalodner e alla Geffen di andare a farsi fottere. Si era chiuso nel suo ranch non so dove a meditare, riguadagnare se stesso, dopo che era stato risucchiato in un vortice di sfarzo mediatico e poi risputato con un divorzio milionario alle spalle, le emorroidi nervose e parecchi debiti, mi sa.

Sì, sui debiti non sono sicuro, ma le emorroidi gli vennero.

Appena Coverdale si era ricostruito spiritualmente e ehm, pure qualcos’altro, andò a farsi venire un altro esaurimento a casa di Jimmy Page, ma smettiamola di parlare di lui e torniamo sul soggetto di oggi. I Manic Fucking Eden.

Va beh. Intanto Alridge, Sarzo e Vandeberg, misero su sta band. Qualcuno parlando del loro unico album, al tempo dell’uscita, nel 1994,  manifestò un certo rammarico per le sorti del gruppo. Il disco, pubblicato da una certa Now And Then Records, era davvero buono. Peccato, cazzo, sarebbe stato interessante vedere fin dove, i Whitesnake senza Coverdale, con Ron Young alla voce, l’ex cantante dei Little Caesar, sarebbero arrivati eccetera eccetera.

Quante minchiate si scrivevano. Ma dove vuoi che sarebbero arrivati i Manic Eden?

L’album non vendette e se il gruppo fosse sopravvissuto abbastanza a lungo per supportarlo con un tour mondiale (seee, figurati) non avrebbe venduto comunque. Si sentiva che era il lavoro di una serie di professionisti abituati a fare i sarti compositori per qualche grande del ruock. Fosse Coverdale o Ronnie James Dio, loro conoscevano tutto l’armamentario classico e lo combinavano in modo da offrire al cliente di turno, ciò che gli si confaceva. Non c’era alcun discorso personale da intraprendere. Era roba di classe, suonata bene, ma decisamente ordinaria. Un po’ di Stones (Wild Horses è citata in Do Angels Die) un po’ di Hendrix (ancora Little Wings in Do Angels Die, che comunque ha un ritornello anni 90 coinvolgente e che ancora regge). Un po’ di Kansas (in Gimme A Shot e Ride The Storm); Led Zeppelin (ancora Ride The Storm ma anche Fire In My Soul) e via così: Bad Company, Michael Jackson e soprattutto Whitesnake a palla nel brano di apertura Can You Feel It.

Insomma, è un bel lavoro di taglia e cuci, piatti sicuri, sostanziosi, per un pubblico che ama la pasta al sugo e il pollo e patate. Però un momento. Vero che è un gran disco. E vale ancora qualcosa. Merita una riscoperta. Non è chissà cosa, ma rispetto alle uscite hard rock del 1994 e dei sei anni successivi, è probabilmente uno degli ultimi grandi lavori del genere. E te lo mette al culo canzone dopo canzone, aumentando il poderoso smacco, scudisciando e sculacciando il cotozzo dell’ascoltatore, a mano a mano che si allontana da Coverdale e si inoltra in territori un po’ più generalisti. Dark Shade Of Grey è una ballad con i controcapperi e Fire In My Soul è umbratile e tosta, con i suoni grossi alla Bob Rock, il riff in stile Kashmir e un ritornello che invece riporta un po’ verso i Black Crows del primo disco. yeah.

Ma basta parlarne, andatevelo a sentire, cazzoni.

Certo, è come se non sia mai uscito. Il mondo non voleva una roba del genere negli anni 90. Basta con ‘sti capelloni e il  quattro quarti. Solo oggi, i collezionisti di vinili che imperversano su internet, lo smodato recupero da parte degli appassionati di un certo periodo storico dell’heavy metal, ecco che un disco come Manic Eden riguadagna una vita presso un piccolo mondo (antico) di estimatori che si baloccano con questa perla perduta. Io lo definirei un lieto fine.