Hell:On – Fare dischi death sotto occupazione

Mi sono sempre detto che il death metal non è tutto uguale. Non nel senso che ci siano chissà quali risvolti in questo o quel gruppo. Il death metal per la verità si somiglia un po’ tutto, oggigiorno. Se prendiamo una band svedese e una polacca, magari hanno delle caratteristiche differenti (come le birre), ma in fondo fanno la solita bevanda death metal. E parlano più o meno di due cose: Satanasso o roba splatter. Cannibal Corpse/Autopsy oppure Morbid Angel/Behemoth.

La differenza però c’è ed è nel luogo in cui si suona il death metal. Se uno bercia testi alla Deicide in Iraq o in Venezuela, non è come uno che li bercia a Roma o a New York. Ne sanno qualcosa i tipi come Nergal, che in Europa possono parlar male di Dio e della Chiesa senza grosse censure o ripercussioni, a parte una scomunica con ricevuta di ritorno. Mentre negli Stati Uniti, in certi posti degli Stati Uniti, Nergal ha avuto le palle di fare il solito spettacolino anti-cristo, ma ha rischiato la vita e di sicuro, alla fine di quella certa serata, le sue mutande erano sporche di marrone, nonostante la baldanza testimoniata da Rendy Blythe.

Ecco perché i Deicide e gli Slayer in fondo continuano a portare avanti un discorso piuttosto delicato, visto il paese in cui abitano, mentre gli Hour Of Penance, si accorgono di come una certa attitudine iconoclasta, possa diventare incresciosa più ci si allontana dai luoghi sacri che si vorrebbero dissacrare. Per esempio dal Vaticano all’Iowa.

Tutto ‘sto preambolo per dire degli Hell:On, che musicalmente sono i Behemoth + Nile, vale a dire death metal di tipo rintronante e bombardone, con elementi etnici, sono diversi da tanti altri, ma non per l’armamentario folk eastonico. Sicuramente gli strumenti usati dal gruppo fanno parte della tradizione delle steppe, da loro tanto decantate e in modo per la verità piuttosto suggestivo (What Steppes Dream About) ma non sono più una novità e all’orecchio di chi sente death metal dal 1991, suonano più o meno come un qualsiasi album dei Nile. Vale a dire tupatupatupatubawooowoooowoowhhwhwwwow e dingi ding ding e deon dedeon e fiuuuuu fiuuuu e giun giun e bong bong e pooooooow. Capite che intendo?

Anche qui, la vera differenza che rende un disco come Shaman unico rispetto alla moltitudine di death band senza nulla da dire, è il luogo in cui si fa la solita solfa. Loro sono di Ucraina, e stanno sotto occupazione dirrussia… e fanno death metal.

Abitano a Zaporizhia Oblast. E mi sa che non sono più neanche ufficialmente ucraini ma russi per annessione forzata. Gli Hell:On rispondono fregandosene e rifugiandosi nella musica. Evadono dalla realtà politica e si richiamano alla taiga, la tundra, la lupesca steppa di nessuno, a ciò che resta perennemente nei loro cuori, nonostante le versatilità geo-politiche.

Il loro è un bell’album death, per varie ragioni. Intanto è privo di nostalgia. Paga il blocco evolutivo degli ultimi quindici anni, ma per venirne fuori servirebbero scelte drastiche difficili da prendere, anche per chi è in guerra. Tipo rinunciare al doppio pedale e vedere cosa succede. Loro imbastiscono gran bei pezzi.

Insomma, questo è probabilmente il massimo che ragionevolmente si può pretendere dal sottogenere più ristagnante della pangea heavydica. Siamo davvero nelle steppe del metal. Gli Hell:On riescono a condurre i vari pattern estremi (blast-beat trifolato, riffoni alternati ripassati in padella, cori tibetani al curry, voci che dicono cose sataniche, melodie arabeggianti tipo melodie arabeggianti, assoloni bluribluribluri. aperture maestose alla vecchi Testament, barbagli da amici della giungla dei Sepultura) in un contesto tutto sommato classico. Se ci fosse un cantante alla Halford al posto di Orso buono Olexandr Bayev, verrebbe fuori il discone dei Priest che gli originali non riescono più a fare, neanche a zampate di AI.

Minzione speciale per:

Shaman, la ticketetrackete, che trascina dentro una tempesta di mosche cavalline.

Preparation For The Ritual: Rotting Christ e Carmina Burana.

When The Wild Wind And The Soul Of Fire Meet: Banga la testa che non banga, come diceva qualcuno che non c’è più.

Il titolo del singolo è molto sdanghero e conferma le implicazioni occulte intorno alla testa del cavallo. Ma chi conosce i Death In June, sull’argomento non ha nulla da apprendere o da dubitare.