Nel 1994 ero immerso in pieno nel mio tempo musicale, avevo abbracciato e vissuto in diretta la genesi del death metal in ogni sua sfumatura e avevo già delineato cosa mi ispirava empatia e cosa no. La scoperta dei finlandesi Thergothon fu qualcosa di mistico. Non avevo mai sentito nulla di così lento, inesorabile e spiazzante prima di quel disco, Stream From The Heaven.
Un serpente che avvolgeva e stritolava senza alcuna fretta la vittima, guardandola a lungo occhi negli occhi, ispirando un senso di sconforto inimmaginabile. Sapevi già dal primo mattino di che morte dovevi morire e sapevi anche che non saresti perito prima di notte fonda. Un pensiero terrifico e inaccettabile.
Un disco inaccessibile ai più, e ne sono lieto, roba che Saint Vitus e Pentagram al confronto sembrano allegri come l’orchestrina di paese che suona il liscio.
Con i Therogothon si è trascinati molto lentamente, in modo doloroso e lancinante, in un gorgo paludoso denso, magmatico, che ti permette di pensare al fatto che stai morendo, rendertene conto e non poterci fare nulla. Una lentissima e inesorabile agonia sonora che monoliticamente ti assorbe, ti strema, fino ad annientarti.
In questo irrefrenabile assurdo e intollerante torpore, l’anima riesce ancora a provare sensazioni vitali, che presto verranno annichilite. Il loro funeral doom death metal è per pochi, davvero esoterico e lo si percepisce nell’andamento dronic, circolare dei riff: semplici, lineari, ma talmente avvolgenti, che è impossibile, se ammaliati, uscire dalle loro spire.
Talvolta mi paiono una versione ultra-rallentata dei primi Cathedral; stesso mood e stessa cripticità. Quaranta minuti che paiono sedicimila anni, per un ascolto che deve essere predisposto con coscienza, con concentrato desiderio di farsi inglobare in un nero che più nero non si può.
La doppia voce, growl e pulita è una combinazione letale; sembra un uomo che con rassegnazione piange la sua stessa morte. Le tastiere, rarefatte e in sottofondo sottolineano con ancora più mestizia i riff ipnoticamente funebri delle canzoni, e tutto viene amplificato da un senso di oppressione che non si riesce a raccontare, ma va provata di persona.
Un sotteso di rabbia spirituale, di dionisiaca grezza vitalità, che spunta fuori dalle palate di terra cimiteriale. Album unico, in tutti i sensi poiché non ne verranno incisi altri, i membri della band intraprenderanno strade inusuali, ardite, in tutt’altra direzione.
Andatevi a sentire i Magenta Skycode, che col metal non c’entrano un cazzo, o i meravigliosi This Empty Flow, miscela di gothic vibes, ambient e new wave.
Storie strane, bizzarre e tipicamente “weird”, che rendono i finlandesi in musica un corpus unicamente irreplicabile. Stream From The Heavens per me resta il capostipite non replicabile di un genere, una pietra miliare che per la sua criptica endogena natura resterò sepolta nella difficoltà di esistere.
Marco Grosso