Titolo che esprime in modo convenzionale un entusiasmo che vi assicuro, è genuino, ma più composto. Sono pur sempre un critico pronto a giudicare e strigliare le band che non fanno le cose come dico io. Dai scherzo, ma nemmeno tanto. Allora, personalmente non mi sono mai filato i Crystal Viper e ho le mie ragioni. Il nome per cominciare, troppo simile a Velvet Viper della Zed Yago Jutta Weinhold. E non mi sono filato mai nemmeno quelli, figurati qualcuno che me li ricorda.
Poi il genere, power metal epico a tema fantasy/horror. Dopo 30 anni che mi sciroppo migliaia di band, inizio ad avere delle eruzioni cutanee da eccessiva esposizione a determinati stereotipi. E anche se da un paio di lavori, questi polacchi dalla melodia facile, si sono spostati dall’epic fantasy all’horror lovecraftiano, in fondo pure qui siamo sempre nelle zone iper-inflazionate dal genere. Io vieterei canzoni tratte dal pipo infelice di Providence per almeno vent’anni; così come impedirei fisicamente l’inserimento di un brano d’apertura con il riff alla Painkiller e le chitarre che ci fischiano sopra. Basta. Basta. Basta. Sembra Painkiller ma non può competere con Painkiller. Provate qualcos’altro. Se ascoltate Fever Of The Gods, mi potete capire.
Comunque, stavo per mollare i Crystal Viper nel cestino della morte ed è arrivata la prima melodia, dopo quasi un minuto ho detto, ma che… cazzo. Mi è accelerato il cuore e mi si è indurita la cazzimma. Mi rendo conto che non sia il gergo critico adeguato, ma in fondo la musica deve avere un riscontro anche biologico, non solo mentale. E posso garantirvi che là in mezzo alle gambe, io ho provato qualcosa e non per l’aspetto fisico di Marta Gabriel.
Ho pensato si trattasse di un caso e ho ascoltato il secondo brano. Il terzo, il quarto e via così. Non lo era. Ogni pezzo, dal primo all’ultimo di questo The Silver Key è fatto di melodie e riff coinvolgenti e che istigano un corriere al fischiettio perenne. Mi si è aperto un mondo. Così sono andato a ritroso nel cammino discografico dei Crystal Viper e ho scoperto che uno) girano da più di vent’anni; due) hanno realizzato nove. nove. nove dischi.
Me li sono sparati tutti e posso garantirvi che… non vale la pena andare troppo indietro. Più ci si inabissa nella discografia della band e meno è chiaro lo stile, meno sono evidenti le capacità raggiunte in questi ultimi anni. Sì, peschino dal metal anni 80 e 90 (Nightwish, Blind Guardian, Manowar, Lizzy Borden, Iron Maiden, Judas Priest) ma è da Queen Of The Witches del 2017 che le cose sono iniziate a salire di livello e il nuovo The Silver Key ha una media d’ispirazione altissima.
Per anni ho sostenuto che le band tradizionaliste si sono perse al recupero di un suono e di un’atmosfera retrò dimenticando il vero motivo per cui ancora stiamo qui a parlare di Bathory, Dokken o Malice: le canzoooooni!
E quelle di The Silver Key potrei citarle tutte, dalla prima all’ultima. Ogni pezzo ha un suo cazzo di perché e dimostra come non sia assolutamente necessario cambiare una virgola nell’abc dell’heavy metal per riuscire ancora comunque a scrivere grandi pezzi. Basta che ascoltiate The Key Is Lost o Book Of Dead, il lento piano voce Wayfaring Dreamer. Non sono nulla di speciale, niente che non abbiate sentito già, ma vi agguantano i testicoli con guanti di velluto e ve li strizzano fino alla gola!
Sentite e capirete cosa voglio dire. Potrete individuare i pattern: Manowar, Maiden o Helloween, ma vi assicuro che quei pezzi stanno in piedi da soli. La vocalist Marta Gabriel in questo lavoro non esagera mai con vocalizzi esasperati (nei titoli precedenti lo fa in modo pregevole ma convenzionale). Qui canta e basta. Niente effetti speciali, solo voce e grandi melodie. Nemmeno Lucasz Halczuch aka Andy Wave si dilunga troppo in piripiri da shradder, per quanto potrebbe. Tutto è al servizio delle canzoni.
Certo, è power metal con le tematiche di Lovecraft e c’entra davvero poco. La Gabriel assicura che il gruppo ha puntato più su atmosfere oscure e cattive, ma a me non sembra, anzi. Trovo che rispetto a The Cult, ci sia una scrittura meno fisica e più aulica. Nell’altro lavoro c’erano momenti più vicini agli anni 70, mentre qui siamo proprio dalle parti del power 90/2000, doppio pedale e lallallero.
Però che lallallero, ragazzi…
Questo è un album che secondo me può piacere anche a chi non è così appassionato di power metal. I dischi validi superano ogni confine e per The Silver Key sono pronto a scommettere che abbia il potenziale universale, almeno nell’ambito della dimensione metal tout court.
In ogni caso, Marta Gabriel ha optato saggiamente per la bibliografia lovecraftiana più onirica e non aggressiva come quella dei miti o cose dark e repellenti come Herbert West e The Loved Dead. Siamo nel ciclo di Randolph Carter, sia per questo che il precedente The Cult. La cosa può favorire un po’ di più le musiche allegrotte e fiere in un contesto meno pesante del grafomane di Providence. O se preferite il mazziere di Providence, tutto purché non si scriva il solitario di Providence, quello è vietato per i prossimi vent’anni.